28 Febbraio 2014

Papa Francesco e l'obbligo di residenza dei vescovi

Papa Francesco e l'obbligo di residenza dei vescovi
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Negli ultimi giorni abbiamo assistito a un dibattito sulle dimissioni di Benedetto XVI: qualcuno ha sollevato dubbi sulla validità delle stesse, ponendo la questione di una possibile diarchia tra i due Papi. Una querelle sulla quale è intervenuto anche Benedetto XVI e, di seguito, l’Osservatore romano del 28 febbraio – in maniera indiretta -, con due articoli sul tema delle dimissioni papali. La questione è stata posta in contemporanea con una missiva, in realtà una lettera aperta, che il Foglio ha inviato al Pontefice, indirizzata però a «padre Bergoglio»: un’intestazione che pone domande sulle intenzioni dei mittenti.

Ma al di là di certa agitazione riguardante il Papa felicemente regnante, come riconosciuto anche dal giornalista che si è interrogato sull’impossibile diarchia, piace in questa sede riportare alcuni passaggi del discorso che il Santo Padre ha tenuto alla Congregazione dei vescovi il 27 febbraio, che aprono alla Chiesa prospettive nuove, anzi antiche.

 

Per il Papa, «criterio essenziale per tratteggiare il volto dei vescovi che vogliamo avere» è quello di scegliere persone che siano testimoni, e possano testimoniare, la risurrezione del Signore: «Il vescovo è colui che sa rendere attuale tutto quanto è accaduto a Gesù e soprattutto sa, insieme con la Chiesa, farsi testimone della sua resurrezione […] La sua vita e il suo ministero devono rendere credibile la Risurrezione». Parole confortanti, ché già san Paolo spiegava come senza la resurrezione di Gesù «vana sarebbe la nostra fede». Un criterio essenziale, appunto, al di là delle caratteristiche del prescelto, che il Francesco ha delineato così: «Non ci serve un manager, un amministratore delegato di un’azienda, e nemmeno uno che stia a livello delle nostre pochezze o piccole pretese. Ci serve uno che sappia alzarsi all’altezza dello sguardo di Dio su di noi per guidarci verso di Lui. Solo nello sguardo di Dio c’è il futuro per noi». 

Al vescovo prescelto è chiesto che le sue scelte non siano dettate da «pretese, condizionate da eventuali “scuderie”, consorterie o egemonie», ma devono riflettere la «sovranità di Dio». Ché del Signore è la Sua Chiesa. 

I vescovi, ha proseguito il Papa in un passaggio bellissimo, devono essere «uomini custodi della dottrina non per misurare quanto il mondo viva distante dalla verità che essa contiene, ma per affascinare il mondo, per incantarlo con la bellezza dell’amore, per sedurlo con l’offerta della libertà donata dal Vangelo. La Chiesa non ha bisogno di apologeti delle proprie cause né di crociati delle proprie battaglie, ma di seminatori umili e fiduciosi della verità, che sanno che essa è sempre loro di nuovo consegnata e si fidano della sua potenza. Vescovi consapevoli che anche quando sarà notte e la fatica del giorno li troverà stanchi, nel campo le sementi stanno germinando. Uomini pazienti perché sanno che la zizzania non sarà mai così tanta da riempire il grano». E, nel sottolineare l’importanza della pazienza, ha citato una frase del cardinal Siri: «Cinque sono le virtù di un vescovo: prima la pazienza, seconda la pazienza, terza la pazienza, quarta la pazienza e ultima la pazienza con coloro che ci invitano ad avere pazienza». Piace questa citazione di Siri anche per disperdere certe fumisterie sul Papa progressista – Siri non è certo considerato un “progressista”.

Altro tratto essenziale del vescovo – ha proseguito Francesco – è che sia «uomo di preghiera». A questo proposito Francesco ha ribadito l’immagine, più volte da lui indicata, di Mosé che coraggiosamente intercede a favore del suo popolo presso Dio. «Il vescovo – ha aggiunto – dev’essere capace di “entrare in pazienza” davanti a Dio, guardando e lasciandosi guardare, cercando e lasciandosi cercare, trovando e lasciandosi trovare, pazientemente davanti al Signore. Tante volte addormentandosi davanti al Signore, ma quanto è buono, fa bene!». 

E ancora, citando un suo discorso precedente, ha chiesto che i vescovi siano «padri e fratelli, siano miti, pazienti e misericordiosi; amino la povertà, interiore come libertà per il Signore e anche esteriore come semplicità e austerità di vita, che non abbiano la psicologia da “Principi”; … che non siano ambiziosi e che non ricerchino l’episcopato… siano sposi di una Chiesa, senza essere in costante ricerca di un’altra – questo si chiama adulterio. Siano capaci di “sorvegliare” il gregge che sarà loro affidato». 

Infine, il passaggio più importante del discorso: «Io penso che in questo tempo di incontri e di convegni è tanto attuale il decreto di residenza del Concilio di Trento: è tanto attuale e sarebbe bello che la Congregazione dei vescovi scrivesse qualcosa su questo». Passaggio importantissimo, tanto che l’Osservatore romano ha scelto di sintetizzare il testo con questo sottotitolo: «Auspicato dal Pontefice un testo che ribadisca l’attualità del decreto di residenza del concilio di Trento».

Tornare, in qualche modo, all’obbligo di residenza dei vescovi sancito da Trento sarebbe una riforma che cambierebbe il volto della Chiesa molto più di altre: senza più la possibilità di ascendere a sedi “cardinalizie” o influenti, il carrierismo ecclesiastico perderebbe mordente. In positivo, ancora più importante, sarebbe possibile tornare ai tempi nei quali diocesi sperdute possano conservare per sempre figure autorevoli, oggi normalmente spostate in sedi più importanti. Un modo per tornare ad Agostino, come più volte auspicato sul nostro piccolo sito, che non lasciò mai Ippona. E da Ippona divenne un faro per la Chiesa. Un modo come un altro, e migliore di altri, per far intendere al mondo, e anzitutto ai cristiani, che la Chiesa non è il Vaticano, liberando il cristianesimo da un tragico equivoco.

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