16 Aprile 2014

Le nomine di Renzi e la democrazia

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Berlusconi ai servizi sociali. Si chiude una querelle infinita, almeno per ora, dal momento che sono ancora in via di definizione altri processi all’ex Cavaliere. Soprattutto, l’affidamento alla misura alternativa al carcere (o alla residenza domiciliare coatta) non impedirà a Berlusconi di fare politica, anche se con qualche limitazione.

La decisione dei giudici salva Berlusconi, che aveva temuto misure più cogenti, ma soprattutto, questo il risultato politico, salva Renzi. Salvo, infatti, è il patto sulle riforme siglato dai due, dal momento che la sinistra interna del Pd non ha più possibili (anche se finora molto eventuali) sponde se non Grillo e i suoi, stante che anche i tanti centristi, sul tema, sono allineati e coperti al renzismo. Salvo soprattutto il risultato delle elezioni europee, o almeno questo sperano i renziani: con Silvio che torna nell’agone politico, anche se per interposta persona, le competizioni elettorali ormai alle porte che rischiavano di trasformarsi in un duello Grillo-Renzi, ritrovano un vecchio protagonista buono ancora per l’uso. Ora la corsa diventerà a tre (gli altri sono comparse) con Grillo nella parte del terzo incomodo che sarà attaccato da destra e da sinistra, e dai rispettivi fan giornalistici (cosa alla quale è alquanto abituato) ma che, soprattutto, avrà meno chanches di attrarre voti in fuga dal centrodestra. Insomma, se prima di questa decisione dei giudici alle europee si profilava una sfida Renzi-Grillo, pericolosissima per il presidente del Consiglio almeno in termini di immagine, ora la partita è più complessa e più favorevole a Renzi.

È fortunato Renzi, la sua inarrestabile ascesa politica è stata favorita da tante circostanze. Anzitutto la fine del governo delle larghe intese, la cui sorte è stata segnata il giorno in cui Berlusconi è stato dismesso dal Parlamento; governo poi definitivamente sepolto dallo scoop di Alan Friedman che ha costretto Napolitano a far dimettere Letta per far posto a Renzi. Ma la fortuna non lo assiste solo in campo politico, dal momento che i nemici del leader della sinistra (?) sono bersagliati dalle avversità del destino: prima l’acerrimo nemico del Pd, Bersani, poi, quando a competere con il renzismo è rimasto il movimento cinque stelle, Casaleggio (motore immobile del M5S): ambedue sono stati vittime di malattie cerebrali (Bersani si è ripreso dopo un lungo stop, di Casaleggio si sa poco, ma lo stop è arrivato anche per lui). Fortunato, sì.

Grazie a questa fortuna, tra l’altro, ha potuto mettere mano alle nomine delle aziende statali indisturbato. Ha fatto tutto da solo, ripetono come un mantra i giornali, come fosse una nota di merito. Felicitandosi, e molto, del fatto che per la prima volta tali designazioni sono avvenute senza le usate, e deplorevoli, contrattazioni tra partiti. Se vero che certe contrattazioni al ribasso scadevano spesso in un bieco esercizio spartitorio, resta un mistero il fatto che ci si possa felicitare perché a decidere sia un solo uomo (e suoi consigliori). Eravamo abituati a un’altra idea di democrazia, che aveva storture meno pericolose dei correttivi in essere. D’altronde un renziano della prima ora, Gian Roberto Vitale, sul Corriere della Sera del 15 aprile, ha parlato di una dinamismo «brutale» sotteso alla designazione dei nuovi vertici. Se lo dice lui…

La propaganda renziana ha rivenduto queste nomine, con annessa e usata “rivoluzione rosa” (già sperimentata per la composizione del governo e per la formulazione delle liste elettorali delle elezioni europee per piazzare sue protegé), come una conquista senza precedenti per la democrazia italiana. Sarà, ma quel che conta in queste scelte dovrebbe essere la competenza, non altri fattori. Non resta che sperare che uomini e donne designati per questi alti incarichi siano all’altezza: in un momento così critico eventuali errori sarebbero pagati a caro prezzo dagli italiani.

Molti osservatori delle cose politiche ritengono che la defenestrazione anticipata di Enrico Letta da Palazzo Chigi sia stata accelerata proprio dall’imminenza di tali nomine. Che Renzi non volesse lasciare al rivale queste decisioni. È possibile, anche perché sono in vista privatizzazioni importanti e avere persone fidate ai vertici di aziende pubbliche aiuterà il presidente del Consiglio a gestire meglio le cose. Ma sono altri e ben più importanti i motivi del cambio di guardia Letta-Renzi.

L’antagonismo tra i due non è stato solo determinato da questioni personali, che certo non mancano. In realtà l’avvicendamento rappresenta la transizione da una fase politica ad un’altra. Se le larghe intese erano state immaginate come un momento di riconciliazione nazionale che ponesse fine alla lunga guerra civile che da tempo, con periodi di tregue, travaglia l’Italia (di fatto dal ’68), il governo Renzi è tutt’altro. È, infatti, la vittoria di una parte sull’altra, come dimostra la consegna dell’antagonista politico alla magistratura (destino singolare per un presidente del Consiglio di un Paese occidentale). Ma Berlusconi, in questo senso e al di là del destino personale, è solo un simbolo, uno dei tanti e forse il meno pregnante.

In realtà quel che è accaduto in questa lunga guerra civile è la vittoria del ’68, come scrivemmo al momento dell’investitura dell’ex sindaco di Firenze. In questo senso è simbolico che, in occasione di un passaggio delicatissimo del governo delle larghe intese, nel momento in cui stava cadendo sotto i colpi dei falchi berlusconiani (rivolta animata da quel Verdini che oggi concorda con Renzi i destini dell’Italia), Enrico Letta abbia fondato la necessità della stabilità del suo mandato proprio come una possibilità di uscita da quel clima conflittuale iniziato nel ’68; conflitto che, era il suo ragionamento, aveva causato l’arretramento dell’Italia da un punto di vista economico, politico e sociale (sul punto torneremo).

Ma, al di là delle analisi, resta che la vittoria di Renzi è senza condizioni, se si può dire così di una vittoria: procede come un rullo compressore relegando il ruolo del necessario dialogo, fondamento degli istituti democratici, a perdita di tempo o esercizio di pura facciata. Cosa che gli è consentita anche da un clima favorevole, si è detto in altre colonne di questo sito, come mai successo in precedenza ad altri presidenti del Consiglio italiani. Un clima favorito da un consenso dei media mai così vasto (fortunato, sì). Portiamo ad esempio un articolo apparso sul Corriere della Sera del 15 aprile (ma se ne potrebbero portare altri e innumerevoli). Sul quotidiano di via Solferino, Maria Teresa Meli, firma prestigiosa del quotidiano, racconta dell’incontro tra Renzi e Berlusconi del 14 aprile scorso, e delle trattative intercorse in quell’occasione riguardo le riforme. Questo un passaggio dell’articolo: «Per convincere Fi a “mantenere fede al patto” è ricorso, come sempre, a un ragionamento inoppugnabile: “Io non ho problemi, non sono legato alla poltrona, non ho firmato un contratto per restare a Palazzo Chigi a vita, posso sempre andare via. Se non riusciamo a fare le cose, togliamo il disturbo e andiamo alle elezioni”. Elezioni che Renzi non si augura, non cerca e non vuole, convinto com’è che l’importante sia andare avanti, fare le riforme, “rivoluzionare l’Italia”». La sottolineatura è nostra e non servono commenti. Per una corretta interpretazione dell’aggettivo inoppugnabile rimandiamo invece alla Treccani.

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