21 Gennaio 2013

La guerra in Mali, un «effetto collaterale» dell'intervento in Libia

La guerra in Mali, un «effetto collaterale» dell'intervento in Libia
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Kofi Annan, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, non poteva essere più esplicito di così: «La guerra in Mali è un danno collaterale dell’intervento della comunità internazionale in Libia». Un conflitto tira l’altro e gli occidentali – questo l’ammonimento del diplomatico – farebbero bene a tenerlo a mente ogni volta che scelgono con le loro truppe di decretare le sorti di una guerra civile.

Le frasi di Annan hanno provocato la reazione della stampa di mezzo mondo. Una delle critiche meglio argomentate, quella del politologo americano Jay Ulfelder, spiega che non si può attribuire per intero la colpa della guerra in Mali alla caduta di Muammar Gheddafi nell’ottobre del 2011. La rivolta dei tuareg e la nuova ondata di terrorismo islamico nel Sahara hanno radici più profonde, che risalgono a prima della rivoluzione libica. Difficile dargli torto. È una storia intricata, quella della guerra civile nel Sahel: le antiche aspirazioni all’autonomia del popolo tuareg si sono incrociate con gli interessi di bande di predoni e di trafficanti di droga, e col nuovo radicalismo – finanziato da potenze straniere come il Qatar – degli islamisti di Ansar Dine e di Al Qaeda nel Maghreb islamico. Ma la fine del regime di Gheddafi ha fornito «circostanze nuove e opportunità fresche» per l’esplosione di violenza degli ultimi mesi.

In che modo? Da un lato, il raìs libico aveva assoldato, nell’arco di vent’anni, interi gruppi di tuareg per il suo esercito. La vittoria delle forze rivoluzionarie ha costretto questi mercenari alla fuga, e molti di loro sono stati attratti dalla speranza di instaurare uno Stato tuareg nel nord del Mali, nella regione che i berberi chiamano Azawad. Le file dei ribelli maliani si sono così ingrossate di soldati esperti e ben armati.

Non solo. Con la fine del Colonnello «è sparito un grosso contrappeso politico all’espansione del terrorismo islamico», spiegava giorni fa Berny Sèbe, dell’università di Birmingham, sul New Statesman. Prima del 2011 la Libia aveva svolto una funzione di contenimento alla diffusione del terrorismo jihadista. La disintegrazione dell’esercito del raìs ad opera delle forze Nato e qatariote, invece, «ha inondato il Sahara di armi a disposizione di Al Qaeda e dei suoi alleati».

Le forze occidentali, intervenendo in aiuto dei ribelli, non si sono preoccupate delle conseguenze del collasso improvviso e caotico di uno degli eserciti meglio equipaggiati della regione. Nei primi mesi del 2012, oltretutto, il nuovo governo di Tripoli si è dimostrato incapace di imporre la sua autorità su tutto lo sterminato territorio libico: i depositi di armi del sud del paese sono diventati un supermercato aperto a tutti. Un esito che forse si sarebbe potuto evitare se, contro l’interventismo francese e inglese, fosse prevalso il tentativo di trovare un compromesso: ad esempio l’ipotesi di rimuovere pacificamente Gheddafi per favorire un processo politico di transizione, come proposto ai tempi dallo stesso Kofi Annan.

«L’Occidente finirà per pentirsi di aver rovesciato Gheddafi?», si chiedeva nei giorni scorsi James Blitz sul Financial Times. Nel luglio del 2012 – quando la guerra civile in Mali aveva già provocato la caduta del governo democratico di Amadou Toumani Touré per mano di un colpo di stato militare – il New York Times scriveva: «L’intima connessione tra le due guerre civili (Libia e Mali) ci costringe a ripensare il facile moralismo dei “falchi” dell’intervento in Libia. Se gli interventisti vogliono prendersi il merito delle vite salvate a Bengasi, devono anche riconoscere che le loro scelte sono costate altre vite a Timbuctu. E, da un punto di vista strategico, spodestare un dittatore in un paese appare molto meno meritevole se finisce per aiutare l’ascesa di una teocrazia nel paese affianco».

In quelle stesse settimane un articolo della New York Review of Books constatava sconsolato che «il caos libico ha assunto ormai un valore continentale», con conseguenze nella vicina Algeria come in Niger, fino al lontano deserto del Sinai, dove pure le armi perdute del raìs «stanno alimentando la rivolta a bassa intensità dei beduini». Piccoli conflitti lontani dalla mente del pubblico occidentale. Almeno fino a quando il Sahel non è esploso, diventando un incubo per tutto l’Occidente.

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