15 Giugno 2021

L'intervista di Sergio Romano e la competizione Usa-Cina

L'intervista di Sergio Romano e la competizione Usa-Cina
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Tutta da leggere l’intervista di Sergio Romano a Libero, che descrive il cambiamento avvenuto negli Stati Uniti, da un presidente isolazionista, e per questo non ostile all’integrazione europea, a un imperatore che intende ripristinare l’egemonia Usa nel mondo.

L’intervista di Romano

Ma riaffermare l’unicità (insindacabile) del Potere Usa nel mondo va ovviamente a scapito dei Paesi europei, dal momento che “una leadership globale significa sempre sottrazione di potere ad altri soggetti”, ai quali viene chiesto di tornare al ruolo di Stati clienti del padrone d’oltreoceano.

“Rilanciare l’alleanza atlantica – spiega ancora Romano – ha un solo significato: alla politica di sicurezza globale ci pensiamo noi Stati Uniti, noi abbiamo il monopolio della forza e prendiamo le decisioni. Anche: noi proteggiamo i nostri alleati. Ma tutto questo è un intralcio all’integrazione europea”.

Per quanto riguarda i rapporti con la Russia, Romano ribadisce quanto ha sempre spiegato, cioè che Mosca vede con “obiettiva ostilità” l’allargamento e il rafforzamento della Nato nel Baltico e in Europa dell’Est, in particolare ai suoi confini. Se Biden riuscirà a comprendere tali preoccupazioni, afferma Romano, sarà un bene per il mondo.

Inutile poi brandire la vicenda Crimea in chiave anti-russa, dal momento che oramai è russa e tale resterà. Sul punto, un esempio interessante: “Ricordiamoci che Krusciov concesse la penisola a Kiev nel 1954 come quando un ricco industriale dà le chiavi della sua Ferrari a un dipendente perché si faccia un giretto”...

Infine, Romano dichiara la sua perplessità sull’idea di Biden di lanciare la “lega delle democrazie”, commentando: “Non ne abbiamo bisogno. A che serve? A dire che Xi Jinping non è democratico? Obiettivamente mi sembra soltanto una mossa anticinese”.

«Abbiamo interesse noi europei a dare lezioni di democrazia ai cinesi? – prosegue – No. Biden non è Trump, e aggiungo per fortuna. Però non ammetterà mai che gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina come avversario. Noi europei invece non ne abbiamo affatto necessità […]. E attaccare Pechino sulla questione del contagio mi sembra la peggiore delle faccende”.

Lo scoop australiano e la sfida alla Cina

Su quest’ultimo punto, registriamo un altro scoop che vorrebbe rafforzare la tesi che il coronavirus sia stato creato nel laboratorio di Wuhan e sfuggito al controllo. A rilanciare la tesi è Sky News Australia, che avrebbe le prove che nel biolab di Wuhan c’erano pipistrelli sui quali i ricercatori facevano esperimenti a rischio.

Uno scoop bizzarro, dato che il fatto che ci fossero pipistrelli o meno nulla cambia, dal momento che i ricercatori del laboratorio hanno dichiarato che vi si conducevano studi sui virus provenienti dai pipistrelli, in particolare sulla Sars, che aveva flagellato la Cina nel 2002 (ovvio che un biolaboratorio la studi, com’è ovvio che nel biolab di Fort Detrick si studino gli agenti “patogeni più pericolosi del mondo“).

Non entriamo nel dettaglio, che al momento non ci appassiona, ci limitiamo a osservare l’origine del nuovo scoop, l’Australia, e a prendere atto di una coincidenza cronologica.

La notizia arriva proprio mentre il più grande Stato dell’Australia (che è una Federazione), l’Australia occidentale, ha chiesto una politica meno avversa alla Cina, spiegando che non si tratta di “inchinarsi” a Pechino, ma di avviare una politica più “razionale” nei confronti del gigante asiatico. Dopo lo scoop di Sky news Australia, azzardiamo, la richiesta sarà stata sommersa da critiche.

La competizione con Pechino sarà di lunga durata e purtroppo occorrerà abituarsi a questa alternanza di alta e bassa tensione, a questa corrente di nervosismo che attraversa il mondo, funzionale e necessaria al rilancio della leadership globale degli Stati Uniti.

C’è dell’ironia in tutto questo. La presidenza Biden vorrebbe voltar pagina rispetto alla follia neocon che tanti disastri ha prodotto negli Usa e soprattutto nel mondo, e tornare ai fasti delle presidenze democratiche in stile Kennedy (almeno l’immagine che di questa è passata attraverso le narrazioni, che la realtà è tutt’altra).

Ritornare, cioè, ai tempi in cui all’Impero bastava dispiegare il suo soft-power e la moral suasion per subordinare a sé l’Occidente e tenere a bada le minacce esterne, con la guerra relegata a estrema ratio.

Purtroppo, però, la competizione avviata con la Cina è molto lontana da quel modello ideale. Il nervosismo da cui è permeata e l’accesa propaganda che l’accompagna vibra ancora della follia neocon che tale presidenza vorrebbe relegare al registro dei brutti ricordi.

 

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