18 Gennaio 2014

Quando è il Signore a illuminare la realtà tutto è più facile

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Botticelli, sant’Agostino

«”È urgente recuperare il carattere di luce della fede” dice il Papa nell’enciclica [Evangelii gaudium n. 4], ma per farlo occorre dunque comprendere che tale luce non è quella di un’immediata nostra chiarezza di visione di ogni cosa […] non è la luce di un faro che da noi si proietta sulla realtà permettendoci di conoscerne e spiegarne ogni dettaglio; essa è piuttosto come un raggio che ci colpisce e illumina anzitutto il nostro volto. In virtù della fede, dunque possiamo sì dirci “illuminati”, ma nel senso proprio del participio passato del verbo, non in quello (sempre larvatamente gnostico) di un aggettivo sostantivato che designa i possessori di una luce che dissipa l’oscurità del mondo e rivela segreti inaccessibili a quelli che sono nell’ignoranza». A scrivere questo commento all’Evangelii gaudium sull’Osservatore romano del 18 gennaio è Leonardo Lugaresi (Il filo di Agostino). 

Lugaresi riporta anche un altro passo dell’Evangelli Gaudium, nel quale tale concetto viene espresso in altro modo: «La luce di Gesù brilla, come in uno specchio, sul volto dei cristiani e così si diffonde, così arriva fino a noi, perché anche noi possiamo partecipare a questa visione e riflettere ad altri la sua luce» (n. 37).

Questa concezione dell’illuminazione della fede, spiega Lugaaresi, si ritrova anche in sant’Agostino. Così nelle Confessioni: «Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose da essa illuminate, per cui la mia faccia stessa, con la quale distinguevo le cose illuminate, non era luminosa».

Questo il commento di Lugaresi: anche noi «benché convertiti e battezzati, siamo tentati di vivere e di comportarci da “illuminati”, nel senso che usiamo la fede per illuminare le cose e intendiamo la missione come uno sforzo di trasmettere agli altri la nostra visione del mondo, ma “non abbiamo la faccia rivolta al mistero” di Dio che ci illumina, e di conseguenza non ne riflettiamo la luce. Sono due posizioni diametralmente opposte, benché entrambe si dicano cristiane».

«Come può avvenire la conversione dall’una all’altra, per cui letteralmente si capovolge l’orientamento della vita?», si chiede Lugaresi. Per tutta risposta riporta un altro brano delle Confessioni, la conversione di Mario Vittorino, dotto intellettuale del suo tempo. Al massimo della sua celebrità, Vittorino si reca da un sacerdote altrettanto colto, Simpliciano, «e gli dice: “Sai, io ormai sono cristiano”. Ne riceve una risposta brusca, […]: “Non ti credo e non ti considero cristiano finché non ti vedo nella chiesa di Cristo”. La replica, ironica e sferzante come si conviene a un grande retore, è rimasta famosa (e potrebbe essere il motto di tutti i “cristianisti” senza fede): “Sono dunque i muri che fanno i cristiani?”. Se Vittorino fosse solo interessato al dialogo per il dialogo, la cosa finirebbe qui: il prete e il professore si ripeterebbero quello scambio di battute a ogni incontro, reciprocamente compiaciuti della propria arguzia. Ma Vittorino è un uomo seriamente preoccupato del suo destino che sa – come dice splendidamente Agostino – “arrossire di fronte alla verità”, e un giorno si presenta all’amico dicendogli semplicemente: “Andiamo in chiesa, voglio diventare cristiano”».

Nella conclusione dell’articolo, Lugaresi cita l’introduzione dell’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio al libro di don Giacomo Tantardini Il tempo della Chiesa secondo Agostino, in particolare il passaggio della precedenza della grazia di Dio sulla conoscenza e l’agire umano: «Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano con il nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare». 

Conclude Lugaresi: «Forse è in questa radice agostiniana, come già altri hanno notato, che si trova una delle ragioni più profonde delle consonanza di due personalità così diverse, come il Papa emerito Benedetto XVI e Papa Francesco, e forse è qui la via per non farsi intrappolare in una falsa antitesi tra dottrina ed esperienza come quella che rischia di profilarsi in certi dibattiti intraecclesiali».

Nota alquanto lunga, ma valeva la pena dilungarsi sul punto. Per tanti motivi.

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