Iran: i venti di guerra suscitano resistenze negli Usa

A quanto pare Trump si è consegnato ai neoconservatori che da decenni spingono per radere al suolo l’Iran, in combinato disposto con Netanyahu e soci. Questo nelle dichiarazioni roboanti e decisamente bellicose contro Teheran, anche se ancora non ha dato luce verde ai bombardieri americani, cosa che infastidisce non poco i suoi attuali fan, secondo i quali avrebbero dovuto farlo subito.
D’altronde, se Trump fosse del tutto organico a tali ambiti Israele non avrebbe mai attaccato in solitaria, ma si sarebbe coordinato con l’alleato fin dall’inizio. Né il presidente Usa continuerebbe a parlare di un possibile accordo con l’Iran, per fare il quale vorrebbe organizzare un incontro tra il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi e i due suoi uomini più fidati, il vicepresidente J.D. Vance e Steve Witkoff.
Anche se più che di accordo si dovrebbe parlare di una richiesta di resa incondizionata, dal momento che chiede lo smantellamento totale dell’apparato nucleare, rifiutato finora da Teheran.
Altro punto di distacco da Netanyahu e soci il fatto che non appare disposto ad assecondare un regime-change in Iran, dichiarato apertis verbis dal premier israeliano. Tale divergenza è sottolineata da un articolo di Bar’el pubblicato da Haaretz, in cui spiega che tale disposizione di Trump è evidenziata dal veto che ha posto sull’assassinio dell’ayatollah Khamenei.
Spiegazione convincente, tanto che l’indiscrezione sul veto ha infastidito non poco Netanyahu, che appena è diventata di pubblico dominio si è affrettato a dichiarare la necessità di assassinare il leader religioso degli sciiti (che pure ha scomunicato fin dal 2003 lo sviluppo del nucleare in chiave militare… tant’è).
Ed è convincente anche alla luce dell’editoriale odierno del Washington Post, giornale di riferimento dell’establishment repubblicano, secondo il quale l’America non dovrebbe spingere per un cambio di regime in Iran perché creerebbe altra destabilizzazione permanente al modo di Afghanistan e Libia.
Fin qui i punti di distacco tra Trump e gli interventisti Usa, che danzano sullo spartito scritto da Netanyahu, ma la probabilità che il presidente finisca per precipitare l’America in una nuova guerra resta alta, sia perché sta subendo pressioni ad ampio spettro, anche inconfessabili, sia perché sembra in confusione totale.
Venti di guerra
Non rassicurano le notizie sul rafforzamento della presenza Usa nella regione, in particolare lo spostamento massivo di aerei cisterna nella base dell’US Air force Diego Garcia, nel Pacifico, la cui flotta aerea va a sommarsi a quella delle basi americane sparse nel Medio oriente, alle quali vanno aggiunte quelle della portaerei Carl Vinson, che si trova nel Golfo Persico insieme alla britannica Prince of Wales, alle quali si affiancherà, nel tempo la Nimitz; navi tutte scortate da incrociatori dotati di missili a lunga gittata.
Un dispiegamento difensivo, ha dichiarato il capo del Pentagono Pete Hegseth, che di difensivo ha ben poco. Non ci sono, però, truppe in arrivo, quindi niente stivali sul terreno, anche perché affrontare l’esercito iraniano, uno dei più formidabili del mondo, sarebbe duro anche per l’America. Troppe bare tornerebbero in patria, non può permetterselo.
Se gli Usa entreranno in guerra si prospettano due scenari: quello di un blitzkrieg volto a distruggere i siti nucleari iraniani per poi dichiarare missione compiuta, anche perché le radiazioni conseguenti fiaccherebbero ancora di più il Paese (tale il nefasto crimine che si vuole commettere).
Il secondo scenario è quello di un bombardamento prolungato volto a disgregare l’Iran per aprire spazi di manovra al loro agognato regime-change, che avrebbe come corollario lo scenario siriano post Assad, con l’IDF che bombarda tutte – tutte – le infrastrutture militari e strategiche iraniane.
Ad oggi, però, sembra che sottotraccia persista un filo di dialogo nel tentativo di scongiurare l’irreparabile. Lo dice il fatto che Teheran non ha dato seguito alla minaccia di imporre restrizioni al transito navale dello Stretto di Hormuz – la vera atomica iraniana – dopo aver annunciato che la proposta sarebbe stata esaminata ieri dal Parlamento.
Così nell’articolo di Bar’el citato: “Su ordine della Guida Suprema Ali Khamenei, il Ministro degli Esteri Abbas Araghchi guida il fronte diplomatico iraniano. L’obiettivo è fermare la guerra, anche attraverso la creazione di una coalizione internazionale per fare pressione su Israele”. In una conferenza stampa tenuta domenica, prosegue Bar’el, Araghchi ha detto che “la rappresaglia dell’Iran è un atto di autodifesa ‘del tutto legittimo’ e che gli attacchi della Repubblica islamica contro Israele cesseranno appena Israele interromperà la sua campagna militare”.
“La leadership iraniana, sia politica che militare – commenta Barl’el – un tempo minacciava regolarmente che qualsiasi attacco israeliano avrebbe portato alla distruzione certa di Israele. C’è un netto contrasto tra quella retorica roboante e le cortesi dichiarazioni di Araghchi”. Sottolineiamo quel “cortesi” perché molto significativo.
La resistenza
Il mondo è in bilico, ma c’è una resistenza. Lo annota Jewishinsider (con certo fastidio) spiegando che la sinistra del partito democratico e i repubblicani Maga stanno sottoponendo al voto di deputati e senatori risoluzioni volte a costringere Trump a chiedere l’autorizzazione al Congresso per un’eventuale guerra.
Sarebbe il minimo, ma nel caso di un incidente di percorso, ad esempio un attacco false flag contro un obiettivo Usa, tale ostacolo sarebbe facilmente superato. Né è scontato, anzi, che tali risoluzioni trovino i voti necessari.
Altro sintomo di malcontento, ad esempio, la rivelazione della CNN, secondo la quale, in base alle informazioni dell’intelligence Usa ricevute da quattro diverse fonti, l’Iran non avrebbe avuto l’atomica pronta e armata se non tra “tre anni”. C’era tutto il tempo per negoziare.
Tra le tante voci critiche dell’aggressività Usa, quella di Hunter DeRensis, che sull’American Conservative (vedi foto in copertina), punto di riferimento di tanti repubblicani, verga una durissima denuncia del lungo asservimento degli Stati Uniti a Israele, in particolare in politica estera. Tale subalternità deve finire, scrive.
Così DeRensis: “Gran parte del comportamento di Israele è un anatema per ogni genere di moralità o decenza umana. Dalle sue numerose guerre di aggressione e di espansione territoriale, alle sue leggi razziste, all’espulsione forzata di centinaia di migliaia di persone dalle loro terre natie e alla loro lunga umiliazione sotto una brutale occupazione militare (durata più a lungo dell’occupazione sovietica dell’Europa orientale), alla sua guerra di annientamento a Gaza, in cui si sono registrati attacchi intenzionali contro civili e bambini: questo non è un governo con cui si possa ragionare”.
Questa la conclusione: “Israele è uno stato nucleare canaglia, aggressivo all’estero e dispotico in patria. Come tante altre cose negative del mondo non è responsabilità di Washington risolvere questo problema lontano. Ma è un dovere morale che il nostro governo cessi di favorire il suo comportamento criminale e destabilizzante”.
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