Gaza e Iran: la telefonata Putin - Trump

Sesta telefonata tra Trump e Putin ieri, segno evidente che il presidente americano tenta di coordinarsi, giocando di sponda, col suo omologo russo per tentare di risolvere i temi più spinosi della politica estera Usa.
I media hanno riferito come i due non siano ancora riusciti a trovare un punto di incontro sull’Ucraina e che hanno parlato di nuove sinergie economiche tra i rispettivi Paesi, trascurando il cenno più importante dei report ufficiali, cioè che hanno parlato della situazione del Medio oriente.
E la tempistica segnala che era proprio il Medio oriente il focus della telefonata perché il mondo in queste ore è sospeso alla risposta che dovrebbe dare Hamas alla proposta di cessate il fuoco americana, accettata, per ora e obtorto collo, da Netanyahu. Il resto, in queste ore, è pula al vento.
Non per nulla ieri Trump ha dichiarato che Hamas avrebbe risposto entro 24 ore. Putin può aiutare, dal momento che può far pressioni e farsi garante presso il variegato mondo islamico che si riconosce nella “resistenza” contro Israele. E di questo avranno parlato i due presidenti, più che dell’Ucraina, sulla quale non sono prossime svolte significative.
Il fatto che il pressing americano su Israele perché ceda su Gaza sia reale lo segnala anche l’improvvisa levata di scudi dei ministri del Likud, i quali hanno esortato il premier ad annettere la Cisgiordania. Un’evidente manovra di Netanyahu, che ha spinto i suoi accoliti a fare questo funesto e tanto improvviso annuncio.
La manovra è tesa a vanificare ancora una volta un possibile cessate il fuoco. Anzitutto mira a destabilizzare Hamas in un momento tanto delicato, nel quale sta decidendo se accogliere o meno la proposta Usa. Mira cioè a convincere Hamas che non ci si può fidare di Israele, che anche se accetta la tregua la guerra continuerà in Cisgiordania, sviluppo che di seguito, e necessariamente, riaprirebbe anche la mattanza della Striscia perché implica la pulizia etnica dei palestinesi, di tutti i palestinesi.
E mira a intorbidire le acque in vista dell’incontro che Netanyahu avrà con Trump lunedì prossimo alla Casa Bianca, sparigliando le carte, minacciando l’apertura di un altro fronte. In secondo luogo, vuole dimostrare che egli resta indispensabile perché è l’unico a poter frenare certe spinte ancora più estreme, gioco di specchi sul quale ha fondato tanta parte della sua politica e che gli ha garantito tanto nefasto successo.
Presentandosi come unico e indispensabile interlocutore degli Stati Uniti e come l’unico in grado di evitare disastri più grandi, Netanyahu cerca di far pressione su Trump perché receda dall’attuale atteggiamento assertivo nei suoi confronti e si arrenda all’evidenza che deve invece sostenerlo in tutto e per tutto.
Nel concreto, cercherà di spuntare due cose: anzitutto che Trump si convinca che il cessate il fuoco con Hamas, sempre che sia accettato dalla controparte, sarà momentaneo, facendo leva sul fatto che lo schema proposto alla milizia può essere interpretato anche in tal senso (non importa cosa recita il testo, in politica tutto è interpretabile).
In secondo luogo cercherà di riaprire il dossier Iran, che il presidente americano ha dichiarato più volte di aver chiuso dopo l’attacco ai siti nucleari. Non per nulla la questione iraniana è stato imposta come tema della conversazione, nonostante le nette dichiarazioni di Trump sul fatto che la questione è stata risolta con gli attacchi ai siti nucleari di Teheran.
A indicare che né Netanyahu né i suoi tanti sponsor, interni e internazionali, non si siano affatto rassegnati a chiudere la querelle iraniana lo indica anche un’iniziativa legislativa bipartisan del Congresso Usa mirata a fornire a Israele le bombe bunker buster (le prime cadrebbero sul bunker che ospita l’ayatollah Khamenei, con le conseguenze che si possono immaginare).
Tanto che l’amministrazione Usa e l’Iran, nonostante le necessarie diatribe ufficiali, sembra si siano decisi a trovare un accordo definitivo che sancisca la fine della querelle nucleare. Questo il senso della ripresa del dialogo su tale tema che dovrebbe tenersi a Oslo la prossima settimana, location significativa perché fu la città in cui fiorì la breve stagione della pace israelo-palestinese realizzata sotto la lucida regia di Rabin e Arafat.
La ripresa del dialogo è possibile anche perché l’Iran sa perfettamente che il nemico non è Trump anzi. Così Kit Kalenberg sul Ron Paul Institute: “Un alto funzionario iraniano sostiene che la Casa Bianca abbia informato Teheran in anticipo degli attacchi, insistendo sul fatto che fossero intesi come un ‘evento isolato’ e aprendo la porta a un contrattacco iraniano ‘simbolico’ e alla fine delle ostilità”.
“I media – continua Kalenberg – suggeriscono che gli attacchi fossero parte di un più ampio impegno del presidente per arrivare a una de-escalation del conflitto che offrisse una via d’uscita negoziata alle parti coinvolte”. Ne abbiamo accennato in altre note, la conferma è gradita. En passant, e per tornare alla telefonata Putin – Trump, si può aggiungere che i due hanno parlato anche di Iran…
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