1 Ottobre 2014

Hong Kong e gli ombrelli colorati

Hong Kong e gli ombrelli colorati
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Tensione a Hong Kong, colorata da manifestazioni senza precedenti. Ad animarle giovani studenti: chiedono che alle prossime elezioni locali, previste per il 2017, non ci siano veti sui candidati da parte della Cina. Richieste alle quali si è aggiunta quella delle dimissioni dell’attuale governatore di Hong Kong, Leung Chun-ying.

Le autorità hanno affrontato i manifestanti con rigidità, per poi allentare la presa, ritirando gli agenti anti-sommossa. Ma oggi sono previste le celebrazioni per i 65 anni della nascita della Repubblica popolare cinese: data a rischio.

 

Brutta gatta da pelare per Pechino: questa protesta evoca molto da vicino la tragedia di piazza Tienanmen. Per fortuna Pechino non può permettersi il ripetersi di quel massacro, che la chiuse al mondo per venti anni. Sarebbe, tra l’altro, la sua fine. Allo stesso tempo non può cedere alla piazza: il rischio che in caso di successo l’esempio di Hong Kong sia seguito anche all’interno della Cina popolare è altissimo con conseguente destabilizzazione del sistema.

Così la crisi di Hong Kong non riguarda solo una lontana quanto anomala provincia del Dragone. Ma interessa la Cina intera: rischia di metterla in ginocchio, nonostante sia ormai un consolidato colosso dell’economia mondiale.

 

La protesta dei ragazzi ha trovato consenso nella popolazione, cosa che ne ha rinforzato la spinta. La rivolta, tra l’altro, sfida Pechino sul terreno del riformismo, proprio la strada imboccata dal nuovo corso cinese con Xi Jinping. C’è nervosismo a Pechino, manifestato anche dalla richiesta agli Stati Uniti di non interferire nella vicenda.

I giornali di Hong Kong sono più espliciti. Il Ta Kung Pao, riferisce il Corriere della Sera del 30 settembre, scrive che dietro questa rivolta c’è una “Mano nera”, ovvero forze straniere dedite alla destabilizzazione. Una tesi fatta propria anche dal Quotidiano del popolo, il quale, sintetizza ancora il Corriere, vede la rivolta «istigata da radicali che hanno ricevuto sostegno e istruzioni da “forze anticinesi” negli Stati Uniti e in Gran Bretagna».

 

Un po’ più dettagliato il quotidiano Huanqiu Shibao. Russia Today ne sintetizza un articolo di certo interesse. Secondo il giornale cinese i leader della rivolta hanno frequentato seminari organizzati dall’Hong Kong american  Center (Hkac), ai quali avrebbero partecipato anche membri del consolato degli Stati Uniti. Scopo dei seminari era «promuovere cambiamenti democratici»; i corsi sarebbero stati tenuti da esperti internazionali che avrebbero insegnato ai partecipanti tattiche e azioni di protesta e strategie di negoziazione con le autorità. L’Hkac dalla fine dello scorso anno è diretto da Morton Helbrook, per trent’anni in forza all’intelligence Usa, il quale, insieme al munifico sostenitore della rivolta, Jimmy Lai, è in stretti rapporti con Paul Wolfowitz, figura di primo piano dei neocon Usa. Insomma, secondo Huanqiu Shibao questa ribellione ha le caratteristiche delle rivoluzioni colorate che hanno imperversato nell’Est Europa e altrove.

 

In realtà a ben guardare, e al di là delle rivelazioni più o meno veritiere dei giornali cinesi, queste rivoluzioni colorate presentano analogie straordinarie, nonostante attecchiscano in Paesi di cultura e composizione sociale tanto varia: slogan semplici e diretti centrati sulle richieste di libertà, democrazia e dimissioni dell’autorità costituita di turno; manifestanti organizzati in maniera sofisticatissima (e dire che a Hong Kong molti di loro sono ragazzini di sedici, diciassette anni), in grado di tener testa alle polizie più navigate; e la scelta di simbolismi facili e diretti che caratterizzino la rivoluzione (subito ripresi dai media internazionali): l’arancione in Ucraina, le rose in Georgia, i tulipani in Kirghizistan e via così. A Hong Kong sembra vada il nastro giallo e l’ombrello.

 

In questa temperie la Chiesa si sta ritagliando un ruolo tutto suo. Il cardinale di Hong Kong, John Tong Hon, ha chiesto alle autorità di ascoltare i manifestanti e moderazione ad entrambe le parti. Invece il cardinale emerito Joseph Zen, che non ha mai lesinato critiche al Dragone, è sceso in piazza con i dimostranti.

Nell’agosto scorso, con il viaggio di Francesco in Corea del Sud, era sembrato che i rapporti tra Cina e Chiesa cattolica potessero imboccare nuove strade. La vicenda di Hong Kong può aiutare o complicare.

 

Come in altre situazioni, la rivolta di Hong Kong fa leva su questioni reali come appunto le difficoltà di una provincia cresciuta nell’ambito di un sistema democratico ad integrarsi all’interno di un Paese comunista, al quale fu riconsegnata dopo complessa negoziazione con la Gran Bretagna. Coabitazione difficile quella con Pechino, nonostante questa abbia sempre avuto un occhio di riguardo verso Hong Kong, che rappresenta per essa una doppia opportunità: sotto un profilo politico-economico, per sperimentare un sistema di sviluppo misto; sotto un profilo commerciale, come luogo privilegiato (anche se sempre meno) di interscambio con il mondo.

 

Ad oggi le autorità cinesi hanno dato un segnale in vista di un allentamento della tensione, forse anche nel timore che spuntasse qualche cecchino pronto a far precipitare la situazione: nel recente passato è accaduto in Libia, Ucraina, Venezuela (assassini peraltro mai individuati in seguito). Ma domina l’incertezza.

Speriamo si possano trovare forme di mediazione tra le parti. Un compromesso alto che venisse incontro almeno in parte alle richieste dei manifestanti consentirebbe a Pechino, oltre che di uscire da una grave impasse, di fare un’altra tappa verso il cammino di riforme.

Sempre che ci siano margini per una trattativa: in genere nelle rivoluzioni colorate il negoziato è usato come un’arma per far precipitare la situazione e addossarne la colpa alla controparte (vedi Ucraina, dove la piazza ha sconfessato tutte le mediazioni raggiunte con Yanukovich).

I rivoluzionari in genere non si accontentano di riforme, vogliono il rovesciamento del sistema. Anche mettendo in preventivo massacri. Accadde al tempo delle rivoluzioni comuniste, può accadere oggi con una rivoluzione di segno opposto. Vedremo.

 

 

Sia consentita infine una nota a margine. La vicenda di Hong Kong è, in fondo, la rivolta di una provincia contro l’autorità centrale. Cosa capitata di recente, con le diversità del caso, ad altre latitudini: Donbass, Ucraina. Qui, dopo la rivolta delle province dell’Est, il governo di Kiev inviò i carri armati, con il favore dei tanti giornali che oggi plaudono ai ragazzi di Hong Kong…

 

 

 

 

 

 

 

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