24 Giugno 2014

In memoria di Yara

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Finalmente il caso è chiuso. L’assassino di Yara Gambirasio è stato trovato. Almeno questo è quanto ripetono i media, dove il coro colpevolista è unanime, si rincorre e si avvalora a vicenda. Si accumulano indizi: un Dna ritrovato dopo anni di lavoro scientifico, la presenza del colpevole nella zona in cui è stata rapita la ragazzina grazie alla localizzazione del cellulare, le frequenti docce solari in un centro estetico in loco. Accanto a questi elementi ne trapelano altri che suscitano perplessità: la ragazzina, poco prima di essere rapita, avrebbe confidato al fratellino di avere timore perché un uomo, che oggi viene indicato nel Bossetti, la osservava con insistenza. Una rivelazione  che filtra un po’ tardi e che contrasta con l’ipotesi di un prelievo non forzato della vittima – nell’accusa non è contestato il sequestro di persona -,  la quale difficilmente sarebbe salita spontaneamente su un automobile di un uomo di cui aveva paura. Ma per la cronaca nera, e forse anche per gli inquirenti, sono particolari: l’assassino è Massimo Giuseppe Bossetti, noto alle cronache come “ignoto 1”, l’uomo al quale uno stuolo di investigatori dà la caccia da circa quattro anni.

Non siamo né colpevolisti, esercizio facilissimo in casi del genere, né innocentisti, compito normalmente più arduo riservato a una piccola “riserva indiana”. Siamo semplicemente perplessi. Perplessi di fronte a un’inchiesta che da anni si imbatte in svolte inattese e a volte bizzarre. La prima bizzarria è legata alla sparizione della ragazza, che svanisce nel nulla dopo aver frequentato la palestra il 26 novembre del 2010. Nessuna traccia, nessun testimone. Le ricerche sono effettuate da amici, squadre di volontari, polizia, carabinieri, esperti di ogni tipo, soprattutto da cani in grado di seguire le tracce più impossibili venuti da ogni dove, i cosiddetti cani molecolari.  E nulla di nulla. Chi ha rapito la ragazza sa sicuramente il fatto suo. In genere tutte le ricerche si fermano presso un cantiere: lì i cani portano, lì perdono il filo. Eppure, d’incanto, il 26 febbraio del 2011, il corpo della ragazza viene ritrovato. Non è in quel cantiere, ovviamente,  ma in un campo presso Chignolo d’Isola, località relativamente non lontana dal luogo della sparizione. Com’è possibile che una zona tanto battuta possa conservare così gelosamente il suo mistero? Com’è possibile che cani molecolari, le cui prestazioni sono notorie e più che affidabili, abbiano imboccato decisamente altre strade? Sono interrogativi ai quali ancora non si hanno risposte plausibili. Che il corpo sia stato portato in quel posto poco prima del ritrovamento è ipotesi azzardata, dal momento che era in corso una serrata caccia all’uomo e girare per quelle strade con un cadavere in macchina sarebbe risultato alquanto rischioso. Ma forse è un’ipotesi meno assurda di quella che vede quel corpo sfuggire alla ricerca più capillare messa in atto negli ultimi decenni dalle autorità di polizia italiane nonostante fosse sotto gli occhi di tutti.

Altra circostanza che fa pensare è la dinamica dell’omicidio: Yara non ha trovato una morte drastica, ma di stenti, dissanguata nel gelo. Una morte atroce, che però suscita ulteriori domande sul perché l’assassino si sia comportato in modo tanto anomalo. In genere in questi casi l’assassino usa violenza sulla sua vittima, per poi finirla. In questo caso la violenza carnale non c’è stata, come confermato dall’autopsia: quindi la ragazzina sarebbe stata abbandonata al suo destino dopo il tentativo, nonostante fosse ancora viva. Un ultimo moto di pietà? Un disturbo esterno che ha costretto l’omicida a fuggire? Tante domande, nessuna risposta. Alcuni ipotizzano altro: la ragazza avrebbe subito un rito esoterico, satanico, durante il quale sarebbe morta. Sulla sua schiena ci sono dei tagli superficiali particolari: una ics tagliata da due linee parallele, ferite rituali che dovevano permettere, appunto, la fuoriuscita di sangue per compiere il rito.  Gli inquirenti hanno escluso tale ipotesi, optando per tagli casuali.

Ma al di là delle ipotesi più o meno suggestive, più o meno scartate, la sparizione della ragazza e il ritrovamento del corpo suscitano domande ineludibili, in particolare sulla possibilità che questo tragico episodio di cronaca nera non sia legato al gesto di un singolo folle: i serial killer infallibili esistono solo nei film americani dal momento che in genere i folli non sono in grado di pianificare alcunché, mentre le capacità elusive dell’assassino sono risultate impressionanti. E fanno immaginare qualcosa di altro dal solito pazzo criminale, cioè a qualche gruppo omicida più sofisticato in grado di gestire la vicenda con perizia professionale. Che comprenda o meno tra le sue fila l’assassino di cui parlano i giornali. A queste domande non può rispondere un test del Dna, pure interessante quando viene proposto nei telefilm di Csi.

Sull’inchiesta ci fermiamo qui per parlare di altro. Commuovono le parole dell’omelia domenicale di don Corinno, parroco della parrocchia frequentata dalla famiglia Gambirasio, riportate sulla Stampa del 23 giugno (titolo Yara, i dubbi del prete, spero non sia lui) da Fabio Poletti: «Una madre mi ha detto che la morte di Yara ha portato anche del bene perché ci ha fatto sentire più buoni… Io sono stato al campo di Chignolo dove l’hanno trovata. Era un campo arido. Ma Yara è stata come un chicco di grano che dà frutti solo se muore… E se noi non diventiamo più buoni ha vinto l’assassino. Questo ci deve insegnare Yara, che era un chicco di grano, un piccolo seme…».

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