11 Maggio 2015

Le elezioni inglesi, la sinistra e la parata a Mosca

Le elezioni inglesi, la sinistra e la parata a Mosca
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Le elezioni in Gran Bretagna hanno ricordato da vicino quanto accaduto nelle recenti elezioni israeliane. Sia a Tel Aviv che a Londra i sondaggi davano un testa a testa tra destra e sinistra e tracciavano possibili scenari futuri nel segno dell’incertezza. E, come a Tel Aviv, a Londra ha vinto, anzi stravinto, “a sorpresa” la destra.

A legare le due elezioni non solo un analogo scenario pre-elettorale, ma anche una coincidenza temporale: proprio mentre maturava la schiacciante vittoria di David Cameron, Bibi Netanyahu, da tempo alle prese con la difficile composizione di un governo – tanta la litigiosità tra i vari partiti di destra -, consegnava al presidente di Israele la lista del nuovo esecutivo.

 

Sono coincidenze, ovvio, ché tanto diverse sono le problematiche e gli scenari dei due Paesi, ma in questa temperie ci è tornato in mente la considerazione della scrittrice israeliana Manuela Dviri, intervistata di recente da Piccolenote, che accennava come molti fenomeni che poi si spandono per il mondo hanno in Israele il loro inizio.

E in effetti queste due elezioni possono essere lette anche come un segnale della direzione che sta prendendo il mondo, o meglio l’Occidente. In un pianeta preda della paura, causa destabilizzazione e crisi economica, la gente cerca sicurezza. Così il vento di destra soffia forte e, se il prossimo anno alla Casa Bianca andasse Jeb Bush, favorito insieme alla Clinton, potrebbe risultare inarrestabile.

 

La sinistra in Occidente sembra ormai in ritirata. La Grecia, con Syriza al potere, sembra un’eccezione che conferma la regola, e la sua tenuta è messa a rischio dal forte contrasto europeo che fa perno sugli indispensabili aiuti economici. Forte resta la socialdemocrazia tedesca, anche se il suo baricentro tende sempre più ad allontanarsi dalla sinistra, mentre in politica estera, nonostante gestisca tale ministero, risulta alquanto ininfluente, stante che la Germania nel mondo è Angela Merkel.

Diverso il caso di Hollande, al quale è stato riservato il destino di mesto liquidatore della gauche, operazione iniziata con la dismissione di alcuni ministri sgraditi all’alta finanza e con la presa in carico del potere parigino da parte del falco Manuel Valls.

 

Se questo è il quadro, l’unica sinistra che sembra mantenere un certo appeal sull’elettorato è quella incarnata dalla Clinton e da Renzi, ma si tratta di una sinistra nuova e diversa che, abbandonata la tutela delle classi meno agiate, ha abbracciato entusiasticamente la tecnocrazia finanziaria.  Da qui anche il gradimento, se non l’esplicito appoggio, dell’alta finanza stessa.

 

Non interessa in questa sede dibattere le bizzarre teorie che immaginano questi modelli in stile blairiano (l’ex leader laburista Tony Blair non cessa di elogiare Renzi) come l’incarnazione di una fausta sinistra moderna. Interessa invece rilevare che la sinistra storica sembra aver perso capacità di interlocuzione con le classi meno agiate, suo pregresso ambito di riferimento. E questo avviene, per paradosso, proprio mentre una crisi economica senza precedenti sta dilaniando l’Occidente, quando cioè la domanda di perequazione economica e giustizia sociale si alza più forte che mai.

 

Lo scacco della sinistra viene prima del trionfo della grande finanza internazionale de-regolata (ovvero senza regole, quindi tecnicamente illegale), e però è anche vero che tale sconfitta in parte è stata causata dalla inanità dimostrata nel contrasto alla stessa: troppo ambiguo il rapporto con un ambito al quale la sinistra si è prostrata in implorante adorazione prima di essere da questi giustiziata. Troppo ambiguo per poter suscitare speranze e attrarre consensi in quanti quelle speranze le hanno via via perdute e i loro consensi regalati altrove (o a nessuno).

 

In fondo anche le elezioni inglesi possono essere viste come un simbolo di questa vittoria della grande finanza sulla sinistra, dal momento che i laburisti di Ed Miliband – che pure qualche barlume di sinistra aveva reintrodotto nello sfavillante labour blairiano -, sono stati schiantati nel Paese della City.

 

Ma al di là, si è parlato molto del futuro del Paese dopo le elezioni, in particolare della sua possibile secessione dall’Unione europea. Una prospettiva oggi più possibile di ieri, soprattutto se andasse in porto il progetto di creare un’area di libero scambio tra Usa ed Europa, della quale la Gran Bretagna farebbe comunque parte.

 

In questo caso, Cameron potrebbe immaginare il suo Paese come un’area privilegiata di questo scambio intercontinentale, un crocevia obbligato degli scambi commerciali e finanziari che si andranno a sviluppare. Una prospettiva ancora più interessante, dal punto di vista inglese, qualora si ricostituisse quell’asse privilegiato con gli Stati Uniti d’America che la Presidenza Obama, e altro, ha alquanto incrinato.

 

Sotto un altro profilo, o forse no, è lecito domandarsi se il trionfo di Cameron cambierà qualcosa per quanto riguarda l’approccio della Gran Bretagna ai sommovimenti che stanno dilaniando il vicino Oriente e il mondo arabo in generale. Difficile immaginare una risposta, ma un dato va ricordato: quando fu posto sul piatto il possibile intervento armato occidentale in Siria, il primo Paese a dire no fu proprio l’Inghilterra. E protagonista di quello storico voto del Parlamento britannico fu proprio Ed Miliband.

Il leader laburista non c’è più e anche il suo partito non se la passa molto bene (e, tra l’altro, di un intervento militare in Siria si ricomincia a parlare con insistenza; in Italia a lanciare i suoi strali contro lo sterminatore Assad è Pierluigi Battista sul Corriere della Sera dell’11 maggio, con un editoriale dai toni apocalittici e integrati).

 

Mentre si consumava la vittoria di Cameron, sulla Piazza Rossa andava in scena la commemorazione del 70° anniversario della vittoria sul nazismo. Una parata immaginifica, dal momento che Putin ha voluto far vedere al mondo la forza della Russia.

L’Occidente ha risposto all’esibizione della potenza militare moscovita ostentando la propria potenza politica, mandando deserta la rappresentanza diplomatica prevista nella vetrina putiniana. Questa almeno la narrazione comune dei media che si sono soffermati sui predellini vuoti della piazza, assenti i rappresentanti del mondo occidentale.

 

In parte è vero, anche se poi la Francia ha mandato il suo ministro degli Esteri a onorare i caduti della guerra, come anche l’Italia (in questi giorni funestata da un rogo che ha divorato un Hub dell’aeroporto di Fiumicino). Una presenza simbolica di due Paesi che in questo modo, per quanto bizzarro, hanno manifestato la loro volontà di non rompere del tutto il filo del dialogo con Mosca.

Diverso il caso della Merkel, l’unico capo di Stato occidentale pervenuto a Mosca: anche lei ha disertato la Piazza Rossa per rivolgere la sua attenzione ai caduti, ma la sua presenza ha evidenziato che il rapporto con Putin, concretizzatosi quando con lui trattò la tregua in Ucraina, è ancora in essere.

 

A proposito di queste assenze riportiamo il Post Scriptum apposto da Eugenio Scalfari al suo editoriale per la Repubblica del 10 maggio: «In una lettera al Corriere della Sera di ieri Silvio Berlusconi ha criticato severamente i capi di governo occidentali che non sono andati alla sfilata di Mosca voluta da Putin per festeggiare la vittoria della seconda guerra mondiale contro il nazismo: “Non bisogna isolare la Russia spingendola verso l’Asia, bisogna invece avvicinarla all’Europa se non vogliamo che sia l’Europa a essere isolata”. Così ha scritto Berlusconi. Si può anche ricordare che lui con Putin ha un’amicizia personale di dubbia qualità che potrebbe averlo indotto a questa pubblica esternazione. Ma quali che siano le possibili ragioni che l’hanno spinto a questa pubblica uscita, Berlusconi ha ragione? Non vi sembri strano, ma anch’io la penso così».

 

Detto questo, sostenere, come fanno alcuni analisti italiani in base ad alcuni predellini vuoti, che Putin è un leader “isolato” è tesi alquanto discutibile. Su quei predellini, oltre ad altri capi dello Stato del mondo, c’erano seduti Xi Jinping (Cina) e Narendra Modi (India), che rappresentano Paesi nei quali risiede metà dell’umanità e forse il futuro economico del pianeta.

 

 

 

 

 

 

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