12 Marzo 2015

Ucraina: la fragile tregua e i preparativi di guerra

Ucraina: la fragile tregua e i preparativi di guerra
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Viktoria Nuland era diventata famosa durante i torbidi di piazza Maidan grazie alla diffusione di una sua conversazione telefonica nella quale diceva al suo interlocutore «fuck europe» e spiegava che al governo sarebbe stato meglio uno come Arseniy Yatsenyuk (attuale premier ucraino), chiamato confidenzialmente Yats (il quale ha chiamato a reggere il dicastero delle Finanze una donna proveniente dal Dipartimento di Stato Usa).

Dall’alto della sua carica, la Nuland non accenna a diminuire la sua vis polemica: «Possiamo confermare che ci sono stati altri trasferimenti di carri armati, mezzi blindati, artiglieria pesante e lancia razzi oltre il confine», riporta l’Osservatore romano del 12 marzo.

 

La Nuland non è sola in questa denuncia, peraltro diuturna: altri autorevoli esponenti politici e militari occidentali hanno lanciato, e rilanciato, allarmi simili, senza che, ad oggi, siano mai state mostrate foto satellitari o altro che dimostrino la fondatezza di tali accuse (cosa non difficile: è davvero impossibile nascondere dei carri armati agli aerei spia o ai satelliti che pure affollano i cieli ucraini). Allarmi che si incrociano con gli appelli di quanti ritengono necessario fornire al governo di Kiev armi pesanti, carri armati e missili. Armi letali le chiamano, come se finora in Ucraina si sia sparato a salve.

 

Questo accade mentre Petro Poroshenko, leader ucraino, l’11 marzo, ha dovuto confermare «il ritiro delle armi pesanti da parte dei ribelli filorussi», (ancora l’Osservatore), in ottemperanza a quanto stabilito dagli accordi di Minsk; e nonostante il fatto che fino a oggi nessuno ha potuto denunciare palesi violazioni della tregua concordata (anche se incidenti si sono verificati). E nonostante il fatto che, nel prosieguo dei negoziati, si sia stabilito che il numero degli osservatori che devono garantire il cessate il fuoco sia raddoppiato da 500 a 1.000, ulteriore  garanzia per le parti.

 

Non solo: gli Stati Uniti hanno inviato nei Paesi Baltici, in risposta agli asseriti tank russi, 3000 soldati, carri armati e altri armamenti pesanti, per una esercitazione congiunta con le forze armate locali che dovrebbe durare tre mesi (di questi abbiamo le foto).

Insomma, da parte della Nato è come se l’accordo raggiunto tra Russia e Ucraina, mediatori la Merkel e Hollande, sia un particolare di poco conto, trascurabile. La sfida della Russia, o forse meglio dire la sfida alla Russia, prosegue. Clima arroventato che aspetta una scintilla per diventare incendio.

 

Come avevamo accennato in altra postilla, la tregua raggiunta era in qualche modo inevitabile, stante la disfatta del fantasmatico esercito ucraino: impossibile continuare nei combattimenti anche volendo. La fragile pace potrebbe fornire l’occasione per tentare nuove vie diplomatiche e offrire nuove chances alla distensione, invece tutto resta come prima, anzi le accuse alla Russia aumentano di intensità, come anche i preparativi militari e non solo (l’intelligence britannica sta reclutando persone che parlino russo, non certo per intrattenere i moscoviti).

 

In questo contesto la procura generale di Kiev ha emesso un decreto di fermo contro Sergej Gordienko, leader nazionale del partito comunista ucraino, che già da tempo denunciava l’arbitraria persecuzione di militanti del suo partito, con arresti e torture in carcere. L’accusa nei suoi confronti è di aver votato le leggi restrittive contro le manifestazioni di piazza e contro i finanziamenti stranieri alle ong locali, varate il 16 gennaio del 2014 per contrastare la spinta di piazza Maidan.

Non siamo nostalgici dei vecchi comunisti di rito sovietico, ma certo anche questa mossa non aiuta la distensione degli animi. Al di là del dato – accuse più o meno politiche -, rende l’idea di un giro di vite contro le opposizioni, peraltro l’accusa che l’Occidente muove a Putin, cosa contraria a ogni ordinamento democratico.

 

In questo quadro va situata anche la vicenda dell’omicidio Nemtsov, la cui indagine, finora, ha portato all’arresto di alcuni “patrioti” ceceni. Indagine che non convince l’opposizione né l’Occidente (né noi, nel nostro piccolo). Ma come tutte le indagini su omicidi politici di particolare rilevanza, sarà difficile che la verità tutta intera venga a galla. Capita anche in Occidente, anche se in queste latitudini i modi per evitare che si giunga ad acclarare la verità hanno vie e modalità più sofisticate.

 

D’altronde è improbabile che chi ha dato il mandato omicidiario abbia lasciato dietro di sé delle tracce: la manovalanza, in questi casi, non sa nulla dello scopo dell’azione, né ha contatti reali con il mandante ultimo. Sa solo quel che gli viene riferito dall’intermediario, normalmente in maniera distorta e depistante.

Resta il dubbio che a sapere qualcosa in più possa essere stato uno degli accusati, quello che si è fatto saltare in aria, o è stato fatto saltare in aria, con una bomba. Ma ovviamente non lo sapremo mai.

 

E però in Occidente questa inconcludenza (direi ovvia) delle indagini può essere usata, anzi è usata, per accusare ancora una volta Putin. Se non di voler “coprire” i veri colpevoli, quantomeno di non volerli cercare veramente. Oltre a essere accusato di responsabilità morale del crimine, avendo creato un clima di odio contro le opposizioni.

Accusa generica, quest’ultima, che non convince: se è vero, per fare un solo esempio recente e italiano, che verso Silvio Berlusconi si era creato un clima di odio a causa di campagne mediatiche senza soluzione di continuità, non per questo si possono immaginare responsabilità morali di quanti hanno alimentato tale clima nel gesto del folle che, nel 2009, colpì l’ex Cavaliere con il modellino del Duomo di Milano.

Né va dimenticato che l’Occidente, spingendo sull’acceleratore in questo confronto con Mosca, alimenta anche la tensione interna in Russia, da sempre in guardia contro le ingerenze dell’intelligence straniera.

 

Sabato una boutade: su faceboock la falsa notizia che Putin era ammalato e morto ha creato scompiglio a Mosca, tanto che il portavoce del Cremlino ha dovuto confermarne lo stato di salute. Oggi un incendio ha devastato un centro commerciale a Kazan, nel Tatarstan, almeno cinque vittime, tanto panico e un significato alquanto simbolico: il fuoco divampa.

Povera foglia frale (Leopardi) è questa tregua. E però è un residuo di ragionevolezza che andrebbe difeso da quanti hanno a cuore il destino dell’umanità (obliare, come sta facendo l’Occidente, che la Russia ha un arsenale nucleare è inspiegabile follia).

 

(nella foto l’incendio di Kazan)

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