17 Aprile 2016

Lesbo e il miracolo dell'unità

Lesbo e il miracolo dell'unità
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La visita di Lesbo ha commosso il mondo. A questa visita abbiamo dedicato una postilla previa. Nell’articolo di Giuseppe Frangi – pubblicato sul Sussidiario – che pubblichiamo di seguito, postumo, l’ecumenismo della carità che ha toccato il cuore di tanti.

L’unità è il più grande miracolo, accennava don Luigi Giussani. E gesti come questo, in attesa che il miracolo dell’unità della Chiesa vada a compiersi nell’eucaristia condivisa, confortano e alimentano la speranza di quella riconciliazione impossibile. Impossibile agli uomini, certo, ma possibile a Dio.

 

Tra i risvolti della giornata di Lesbo, destinati a lasciare un segno profondo, c’è sicuramente la dimensione ecumenica. Il papa si è mosso all’unisono con due autorità della chiesa ortodossa, nel segno di un’unità che nasce da una comune  sensibilità di fronte ad una delle grandi emergenze del nostro tempo. È stato un ecumenismo della concretezza che ha trovato un riscontro nella concretezza della parole, negli sguardi, nell’attenzione al dato umano senza troppe preoccupazioni formali.

 

Il papa durante tutta la visita è stato accompagnato dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e dall’arcivescovo di Atene e primate della Chiesa ortodossa di Grecia Ieronymos II. Colpiva vederli procedere nel campo profughi del campo di Moria senza tralasciare nessuna delle mani che si protendevano verso di loro. Colpiva la familiarità che si stabiliva subito tra loro e quell’umanità senza patria e senza casa che avevano di fronte.

 

Bartolomeo I com’è noto ha avuto un ruolo importante in questa visita, in quanto è stata una sua lettera del 30 marzo scorso a convincere il papa al viaggio. Una lettera resa nota ieri in cui il patriarca esprimeva l’urgenza di compiere un gesto che aprisse gli occhi ad un’Europa paralizzata nelle sue paure. «Presa nel vortice di tribolazioni economiche e finanziarie che hanno lasciato il Paese e la sua gente esangui», scrive Bartolomeo, «la Grecia è travolta da flussi migratori incontrollati. Tuttavia l’aiuto prestato ai rifugiati e le iniziative di carità sono di tale natura che ci riempiono di speranza».

 

Proseguiva poi Bartolomeo, nel passaggio più bello della breve lettera: «Di fronte alle tragedie della storia, l’umanità sa ancora trovare l’amore infinito che Cristo riferisce alla vita divina quando dichiara: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno di solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”».

 

Sempre ieri il Corriere della Sera rivelava che papa Francesco ha scritto la prefazione alla prossima biografia di Bartolomeo I in uscita in America: un gesto altamente simbolico che conferma come questo processo ecumenico tra le due chiese stia facendo grandi passi, verso il grande appuntamento del prossimo sinodo ecumenico che si terrà a Nicea nel 2025 (l’ultimo si svolse nell’825).

 

Ma l’esperienza di Lesbo ci insegna che non si può guardare a questo processo solo  dentro una prospettiva ecclesiale. Questo cammino ecumenico è qualcosa che vale per tutto il mondo. Questo cammino si sta dimostrando capace di generare infatti un’ipotesi diversa per guardare e affrontare le emergenze e i problemi che affliggono il mondo. È una prospettiva di riscatto del fattore umano rispetto ai disegni delle dittature soft, quelle dei poteri economici e delle tecnocrazie (impressionante e preciso il riferimento di Francesco all’industria delle armi europee che alimenta le guerre e in questo modo genera i profughi, contro i quali oggi si vogliono alzare i muri).

 

Bartolomeo e Francesco hanno dimostrato con la concretezza del loro gesto che c’è un’altra strada percorribile, che ci possono essere altre politiche, non dettate da buoni sentimenti, ma dal realismo di uno sguardo capace di tenere presenti tutti i fattori. L’ecumenismo sperimentato a Lesbo è così un fatto di magnanimità nei confronti del mondo.

 

È una speranza per tutti, proprio come sono segno di speranza quei greci, di cui ha scritto Bartolomeo nella lettera, che pur sotto l’assedio della crisi si sono rivelati capaci di accogliere chi arrivava e stava peggio di loro. Il mondo ha bisogno di un cristianesimo così, sperimentato nella concretezza coraggiosa dell’apertura ai bisogni degli altri, vissuto fuori dai recinti, capace di spalancare orizzonti a un’umanità prigioniera della paura e del cinismo.

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