26 Giugno 2015

Le dimore romane di Pietro, Paolo e Luca

di Pina Baglioni
Le dimore romane di Pietro, Paolo e Luca
Tempo di lettura: 6 minuti

Percorrendo via del Corso da Piazza Venezia, quasi da principio, sulla sinistra compare una chiesa che spesso i passanti distratti neanche notano, quasi a filo sulla strada. Si tratta di Santa Maria in via Lata, un’autentica meraviglia architettonica barocca, palinsesto della storia millenaria di Roma, non solo per quel che riguarda l’edificio religioso in sé, ma soprattutto per quel che cela nelle sue viscere: secondo una pia tradizione, infatti, in un ambiente del I secolo oggi visitabile nella cripta sotterranea della chiesa, san Paolo vi avrebbe abitato insieme con san Luca nella seconda e definitiva tappa a Roma, prima di subire il martirio ad Aquas Salvias, nei pressi della via Laurentina. Non solo: nella casa sarebbe stato ospitato anche san Pietro.

 

Nel portico della chiesa, a destra, c’è una scala che conduce alla cripta. Là, un’iscrizione su marmo ricorda: «Oratorio di S. Paolo Apostolo, di Luca Evangelista e di Marziale Martire, ove si trovava l’immagine della Beata Maria Vergine, una delle sette dipinte dal Beato Luca». Una tradizione narrata anche  in un bassorilievo raffigurante i santi Pietro, Paolo e Luca, realizzato da Cosimo Fancelli nel XVII secolo.

 

La via Lata, antica denominazione di via del Corso, non era troppo distante dal carcere Mamertino, sulle pendici del Campidoglio, dove venivano tenuti i prigionieri condannati a morte.

Secondo lo storico Ammiano Marcellino, a partire dal VI secolo, tale carcere sarebbe stato  venerato come luogo di detenzione di Pietro e di Paolo, i quali, secondo la cronologia tradizionale (controversa ma cara al cuore del popolo cristiano), subirono il martirio lo stesso giorno, il 29 giugno dell’anno 67, giorno nel quale la Chiesa celebra i due apostoli.

 

Quella sulla via Lata sarebbe la seconda casa di Paolo a Roma. Infatti, un’altra  radicata tradizione risalente al II secolo, supportata da importanti scoperte archeologiche, segnala un altro alloggio, il primo dell’apostolo delle genti nell’Urbe: una casa presa in affitto nella primavera dell’anno 61 in riva al fiume, nella grande ansa del Tevere poco distante dall’isola Tiberina.

 

L’apostolo era giunto nell’Urbe da prigioniero: accusato a Gerusalemme di aver oltraggiato la legge mosaica, davanti al giudice aveva rivendicato il suo status di cives romanus, cosa che gli aveva consentito di essere giudicato a Roma. Nella capitale dell’Impero gli era stato concesso un regolare permesso di residenza e di «abitare per suo conto con un soldato di guardia» (At, 28,16). Era questo un sistema detentivo denominato custodia militaris che dava al prigioniero la possibilità di scegliersi una residenza, ma lo vincolava alla sorveglianza di un soldato che lo accompagnava tenendolo legato con la catena al polso ogni volta che usciva di casa.

 

Il luogo dell’abitazione di Paolo è stato individuato nei sotterranei della chiesa di San Paolino alla Regola. In quella zona, l’attuale Rione Regola, si erano stabiliti artigiani del cuoio per la maggior parte ebrei. Là Paolo si era messo ad esercitare il mestiere di fabbricante di tende, cosa che non gli impedì di incontrare persone e diffondere la Buona Novella nella capitale dell’Impero.

 

Trascorsi i due anni della custodia militaris nell’alloggio in riva al Tevere, Paolo viene rilasciato perché il processo, con ogni probabilità, non fu celebrato, forse per la rinuncia degli accusatori di Gerusalemme a sostenere il  lungo e costoso viaggio fino a Roma. Finalmente libero, Paolo va a trovare  i suoi amici, innanzitutto gli amatissimi Aquila e Prisca, ricchi commercianti di pelle che aveva conosciuto a Corinto.

 

I due coniugi, che a Corinto avevano rischiato la vita per salvare Paolo, una volta tornati a Roma erano andati ad abitare sull’Aventino. E la loro casa, una vera e propria chiesa domestica, ospitava molti dei primi seguaci di Gesù nell’Urbe. Oltre Paolo anche Pietro era stato accolto nella casa  di Aquila e Prisca. A quest’ultima, il principe degli apostoli aveva anche amministrato il battesimo, usando – a stare alla tradizione – di quel fonte battesimale ancora presente nella chiesa di Santa Prisca sull’Aventino.

 

Il principe degli apostoli poteva contare su altre famiglie che l’avevano appoggiato e ospitato a Roma: quelle di Marcello e di Pudente (parente di Prisca), appartenenti alla classe senatoria. Gli scavi sotto la chiesa di Santa Pudenziana, intitolata ad una delle due figlie di Pudente, hanno rivelato una dimora signorile che dalla tarda repubblica esistette fino oltre l’età neroniana.

 

E anche Paolo, in questo breve periodo di libertà, poté realizzare il suo desiderio di incontrare con più agio i membri dell’amatissima comunità di Roma, prima di riprendere i suoi viaggi  che lo portarono prima in Spagna, estremo confine dell’Occidente. poi a Efeso, in Macedonia e a Troade.

 

È certo che nel 66-67 Paolo è di nuovo a Roma e stavolta costretto in custodia publica, una forma di prigionia dura, insieme ai delinquenti peggiori, all’interno di un pretorio romano. L’arresto era forse avvenuto a Troade,  all’improvviso, come dimostrerebbe la richiesta al prediletto Timoteo di recuperargli mantello da viaggio, pergamene e libri, rimasti nella casa di un certo Carpo.

 

Ormai le forze gli vengono a mancare, non sa nascondere la delusione perché nella prima udienza è stato lasciato solo. Soltanto il fedelissimo Luca gli è rimasto accanto, mentre gli avversari sono tornati in forza. E a Timoteo fa qualche nome: «Alessandro, il ramaio, mi ha arrecato molto male. Il Signore gli renderà conto secondo le sue opere. Anche tu guardati da costui, perché ha molto avversato le nostre parole».

 

È in questo secondo periodo romano che, secondo la tradizione a cui si accennava all’inizio, Paolo avrebbe alloggiato per un tempo brevissimo con Luca e Pietro nella casa in via Lata, prima di essere imprigionato al Mamertino e condotto al martirio.

 

La dimora in via Lata

La struttura primitiva della chiesa di Santa Maria in via Lata risale al 687, periodo del pontificato di Sergio I, ed era costituita da una diaconia su preesistenti strutture del V secolo. Demolita nel 1491, la chiesa venne ricostruita con interventi che si protrassero per tutto il Cinquecento e successivamente rinnovata per l’anno  santo del 1650.

 

È in quel periodo che Pietro da Cortona progetta la bellissima facciata con due ordini corinzi che si aprono nel portico e nella sovrastante loggia. Durante i lavori di scavo per le fondamenta della facciata furono rinvenuti dei locali sotterranei risalenti al VI secolo e, al di sotto di essi, alcuni vani di epoca romana: era proprio il luogo dove si riteneva avessero abitato, secondo una consolidata tradizione, Pietro, Paolo e Luca.

 

Sui locali romani si era poi insediata, alla fine del VI secolo, una diaconia di monaci della Cappadocia definita la “diaconia di papa Sergio I”, in onore del pontefice di origine siriana allora regnante. Gli scavatori trovarono  gli ambienti ricoperti di affreschi raffiguranti santi acclamanti, l’orazione di Gesù nell’orto, i Sette dormienti di Efeso, il Giudizio di Salomone e il martirio di Sant’Erasmo.

 

Ma è nei vani di epoca romana che venne fatta la scoperta più commovente: una colonna antica avvolta da una catena su cui era incisa una frase di Paolo «Verbum Dei non est alligatum» (2 Tim 2, 9), «la parola di Dio non è incatenata». Il ritrovamento fu giudicato come un importante indizio della seconda abitazione di Paolo  a Roma.

 

Pietro da Cortona, uomo di gran fede oltre che di immenso ingegno, provvide personalmente a eseguire i lavori restauro di quegli  ambienti tanto preziosi. Da ricordare, in tal senso, il suo impegno anche in termini economici per  ritrovamento delle reliquie di santa Martina nella chiesa intitolata alla martire situata ai Fori, nelle vicinanze del carcere Mamertino.

 

Ma nel caso della chiesa di via Lata si doveva procedere in modo ancora più cauto e rispettoso possibile, visto chi ci aveva vissuto. A quel punto il grande architetto suggerì l’ideale connessione tra i due livelli della chiesa e dei sotterranei mediante il raccordo rappresentato dal vestibolo della chiesa superiore e dalle due scale che da esso si dipartono, verso i locali sotterranei, dai lati brevi del portico. L’artista inoltre creò un vero e proprio percorso sotterraneo per favorire il pellegrinaggio al luogo ritenuto abitazione di Pietro, Paolo e Luca.  Da quel momento in poi, su impulso di papa Alessandro VII, a Roma si venne a consolidare il culto dell’antica tradizione.

 

Non è tutto:  esiste  una lettera del 31 luglio del 1813, scritta dal canonico della chiesa di Santa Maria in via Lata, un tal Battaglini, indirizzata al grande archeologo Carlo Fea in cui chiede che non venga rimossa la catena della colonna su cui è incisa la frase di san Paolo. Il religioso non ritiene, certo, che queste siano «sacre reliquie altrimenti sarebbero state con maggior riguardo ed in miglior sito riposte» E però, aggiunge, «quelle catene, che pure vi furono poste, cos’altro significano se non che la custodia di un soldato sopra la persona di s. Paolo e che mentre egli era sorvegliato, e come in arresto, predicava liberamente et Verbum Dei non erat alligatum? Ecco le ottime cose che ricordano ai fedeli e le catene e la colonna …».

 

Ma evidentemente Carlo Fea non raccolse l’invito del religioso perché quella memoria non fu conservata. La catena fu rimossa dalla colonna, che ancora presenta le impronte di ruggine che corrispondono esattamente alla forma degli anelli della stessa, Questa fu poi ritrovata in fondo a un pozzo della cripta, insieme ad altri oggetti di ceramica e metallo,  solo nel 2010, a seguito di una ricerca archeologica. Cose di poco conto per il sentire del mondo, tesoro prezioso per i cristiani. D’altronde questa inversione di valori appartiene alla logica e alle dinamiche proprie del cristianesimo.

 

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