1 Marzo 2016

Se vedere è un miracolo

Se vedere è un miracolo
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«Posso vederti, posso vederti!». Il grido di gioia della donna fende la prima mattina, quando ancora le cose stentano a destarsi dal buio, come recita un inno delle lodi mattutine. E invece dal buio quel giorno Dafné si è destata. Dal buio profondo, nel quale era sprofondata lentamente ma irreversibilmente. A Dafné Gutierrez quella malattia dal nome strano, malformazione di Arnold Chiari, l’aveva aggredita da piccola. Tredici anni, quando ancora la vita sorride a ogni angolo. Una malattia che l’avrebbe portata alla cecità, spegnendo a poco a poco la luce d’attorno.

 

Non si era persa d’animo, nonostante quel morbo maligno. E aveva messo su famiglia: un marito, tre figli. E una sentenza terribile, che però ancora tardava a venire. E però alla fine era pure arrivata, inesorabile, come accade per certe tragedie che affaticano la vita. Nell’autunno del 2014 uno degli occhi si era chiuso definitivamente al mondo. Inizia così un fatica nuova, che pure poteva essere portata, nonostante tutto. Per quei tre bambini, per la sua famiglia che era anche la sua vita. Poi nel novembre del 2015, puntuale, attesa e temuta, la sentenza era arrivata a compimento, spegnendo del tutto anche l’altro occhio, che non poteva vedere la luce neanche se rivolto al sole.

 

Cecità irreversibile, avevano detto i medici che aveva consultato, gettandola nello sconforto. Non era solo il male a rattristarla, ma la preoccupazione per la sua famiglia che poi era tutto quel che il Signore le aveva donato. La luce dei suoi occhi, appunto. Tanto che aveva pensato anche di andare in una casa per ciechi, Dafné. Un modo come un altro per non pesare, per togliere un disturbo che le sembrava insopportabile.

Poi l’imprevisto…

 

E qui la storia di Dafné si intreccia con quella di un santo. Il santo in questione è il monaco eremita Charbel Makhlouf, il più venerato dai maroniti, la Chiesa di rito orientale più diffusa in Libano e Siria ma che la diaspora ha portato in tutto il mondo.

Paolo VI lo ebbe così a cuore che con la sua beatificazione volle quasi chiudere il Concilio Vaticano II (finirà tre giorni dopo, l’8 dicembre del ’65); e fu sempre lui, nel ’77, a dichiararlo santo. D’altronde i prodigi fioriti attorno a questo santo erano tanti e tali da rendere irreversibile anche quel passo.

 

Così torniamo a Dafné e alla sua storia. Siamo all’inizio del 2016 e le reliquie di san Charbel sono portate negli Stati Uniti, in un itinerario che le consegna alla devozione popolare presso le tante parrocchie americane nelle quali si ritrovano le comunità maronite. Una di queste si raggruma attorno alla parrocchia di San Giuseppe, a Phoenix, Arizona.

 

Il parroco è contentissimo. E come avviene in casi del genere si mette a pubblicizzare l’evento. Manifesti appesi per le strade annunziano alla città il prossimo arrivo delle sante reliquie, che saranno esposte alla devozione popolare giorno e notte dal 15 al 17 gennaio. Li notano anche le amiche di Dafné e glielo riferiscono, convincendo la donna ad andare in parrocchia a chiedere grazia.

 

Va nella chiesa che prende il nome dal padre di Gesù (con la p minuscola ovviamente), che era pure il nome del monaco eremita prima che lo cambiasse in monastero, aggiungendo la sua povera devozione a quella dei tanti: una vera folla era accorsa al richiamo del santo. Va a confessarsi e riceve l’olio di Charbel sugli occhi, l’olio benedetto, che si usa a ricordo di un miracolo attribuito al monaco (aveva chiesto dell’olio per la sua lampada, ma il suo superiore gli aveva messo dell’acqua; eppure quella lampada si era accesa lo stesso, nella stupefatta confusione dell’altro).

 

Nel compiere il rito il parroco chiede la guarigione della donna, come ricorda adesso con sobrietà. Fa anche la comunione, Dafné. Qualcosa di solito che però questa volta ha qualcosa di insolito. «Ho preso l’eucaristia e non ho sentito più il mio corpo uguale. Non vedevo, però sentivo il corpo diverso. Che succede? Che sento?». Ricorda la donna ora che tutto è accaduto.

 

Ma in realtà, sensazioni a parte, nulla sembra cambiare e la vita scorre uguale a prima. Fino a quel giorno, anzi a quella notte di due giorni dopo. Si sveglia alle cinque che gli occhi le prudono. E sulla testa e sulle orbite sente una pressione inusuale quanto fastidiosa. Così sveglia il marito che accende la luce. «Spegni la luce!», è l’assurda richiesta. Lui fa quanto gli chiede la donna e poi riaccende la stanza di luce soffusa. Qualcosa non quadra in quell’oscurità “certificata”. «Ti vedo! Ti vedo con tutti e due gli occhi» esclama Dafné. Intorno un bizzarro odore di carne bruciata. Come se qualche misteriosa operazione fosse stata compiuta in quella notte di miracoli, com’èra avvenuto per un’altra guarigione prodigiosa attribuita a Charbel.

 

Da allora diversi medici hanno fatto i loro esami. E altri e di nuovi. E più approfonditi. E tutti sono rimasti basiti. Guarigione completa, anche questa certificata. Qualche dettaglio da capire, ovvero se Dafné è stata sanata anche nel profondo, là dove si è annidata per anni la causa della sua cecità. E però son dettagli. Come per il cieco nato, che ai dottori, quelli della legge di allora che l’assillavano con le loro querule domande, ripeteva di non sapere chi fosse quell’uomo che l’aveva guarito: «Una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo».

Qualcosa di «inspiegabile» è accaduto a Phoenix, Arizona, come ripetono in coro anche i telegiornali di Stato.

 

Abbiamo riportato questa notizia non solo per rimarcare quanto sono importanti i miracoli per la fede cristiana, ché se si cancellassero dal Vangelo dovremmo cassarne metà delle pagine, quanto perché sul nostro sito abbiamo dato notizia di un altro miracolo fatto di recente dal santo eremita. Stavolta alla piccola Milan, una bambina fuggita agli orrori di Siria.

 

Evidentemente il Signore ha dato una licenza speciale al suo monaco libanese. Non di uccidere come per gli agenti del terrore scatenati in quei luoghi tormentati, ma di dare la vita. «Bisogna dire alla gente di invocare i santi perché sono stati fatti per questo»: è una frase di don Luigi Giussani con la quale suggeriva ai fedeli di chiedere i miracoli perché potesse tornare a fiorire la fede nel mondo. Piace riportarla al termine di questo povero articolo, che dice in fondo l’altro motivo per cui val la pena scrivere di avvenimenti del genere…

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