8 Agosto 2014

Default Argentina: se i fondi avvoltoio scommettono sul fallimento

di Fabrizio Fava
Default Argentina: se i fondi avvoltoio scommettono sul fallimento
Tempo di lettura: 3 minuti

Il ministro dell’economia argentino Axel-Kicillof

Annunciato o meno, è dafault tecnico per l’Argentina, il secondo in tredici anni. Come si è arrivati a questa situazione? L’Argentina avrebbe dovuto pagare ad alcuni fondi di investimento, entro la mezzanotte del 30 luglio, gli interessi dovuti sui titoli di Stato argentini da loro posseduti, come da sentenza del giudice federale Usa Thomas Griesa. In assenza di un accordo tra le parti il giudice ha eseguito la “condanna”, mettendo in ginocchio il Paese latinoamericano e provocando un’onda di marea che potrebbe ripercuotersi sul mondo. Fu così nel 2001; oggi è diverso per tanti motivi, ma il rischio è comunque enorme.

Fermi un attimo: punto uno, cosa ci fa di mezzo un giudice? E, punto due, dei fondi speculativi hanno il potere di provocare il fallimento di un Paese di 41 e rotti milioni di abitanti (che ne pagheranno le spese)?  La risposta alla due domande, è, purtroppo, sì. Dopo il crollo del suo sistema finanziario, l’Argentina aveva ristrutturato il suo debito, rimettendo in ordine i conti e arrivando a un compromesso con i suoi creditori. Ma alcuni fondi di investimento, guidati dalla Nml Capital, non hanno accettato il negoziato (che comportava per loro perdite fino al 70%) e hanno portato la questione a un tribunale di New York – visto che i bond argentini denominati in dollari sono soggetti alla giurisdizione americana –, chiedendo il rimborso integrale delle loro obbligazioni per 1,5 miliardi di dollari. Le trattative dell’ultima ora non hanno portato ad alcuna intesa e a niente è servito l’estremo tentativo delle banche argentine che si erano dichiarate disponibili a rilevare il debito. Il giudice ha dato dunque ragione ai fondi sostenendo che l’Argentina non può pagare interessi sui nuovi titoli ristrutturati finché non avrà trovato un accordo per compensare i creditori ribelli che chiedono un rimborso completo dei bond in loro possesso. Così niente accordo uguale fallimento.

Detto questo, il ministro dell’Economia argentino Axel Kicillof  ha fatto buon viso a cattivo gioco dicendosi sorpreso della decisione, visto che «default è quando non si paga, mentre Buenos Aires ha pagato», trasferendo a New York i fondi necessari a coprire gli interessi in scadenza sui bond “ristrutturati”. Kicillof, nel corso di una conferenza stampa, ha dunque puntato il dito, prima, contro Greisa («Non ha capito la complessità del caso» ed è «andato al di là della sua giurisdizione») e poi contro i creditori («I fondi speculativi hanno cercato di imporci qualcosa di illegale. L’Argentina è pronta a impegnarsi al dialogo e alla ricerca del consenso, ma cerchiamo una soluzione equilibrata, giusta e legale»), per poi etichettarli (difficile dargli torto) come «avvoltoi» che «vogliono di più e lo vogliono subito», chiosando che il suo governo non può firmare accordi sotto estorsione.

Ma l’Argentina non è sola in questa battaglia. Tanto è vero che cento economisti – tra loro anche Robert Solow, premio Nobel per l’economia nel 1987 – hanno scritto una lettera al Congresso degli States protestando contro la sentenza, che potrebbe innescare «un inutile danno economico al sistema finanziario mondiale». Nel breve testo hanno poi ricordato, tra i vari argomenti avanzati, che privati e corporation possono farsi scudo con la legge sulla bancarotta, mentre lo stesso meccanismo non esiste per i debiti sovrani.  E ancora: «Coloro che hanno investito in bond argentini sono stati ripagati con alti tassi di interesse, al fine di mitigare il rischio di default. Ci sono rischi insiti quando si investe in obbligazioni sovrane, ma la sentenza della Corte crea un rischio morale, permettendo agli investitori di ottenere pieno rimborso, senza tenere conto di quanto fosse rischioso l’investimento iniziale».

Ecco invece cosa scrive l’economista Leonardo Becchetti nella sua rubrica La felicità sostenibile su Repubblica: «Per il futuro è essenziale disincentivare questi comportamenti speculativi imponendo come regola nelle ristrutturazioni dei debiti sovrani che quando una quota di maggioranza dei creditori accetta un accordo di ristrutturazione tale accordo debba imporsi anche ai rimanenti. Se questo aumenterà rischi e costi dei debiti sovrani non importa perché si tratterà in questo caso di una normale legge di mercato da accettare. Quello che conta è che, come nel fallimento privato, il principio eticamente superiore di cercare di far ripartire la parte più debole, tanto più quando si tratta di un intero Stato sovrano e non di un singolo imprenditore, sia salvaguardato».

C’è però uno spiraglio. Lo stesso Axel Kicillof ha lasciato intravedere la possibilità di una terza strada, rappresentata del settore privato, per uscire dalle sabbie mobili. E il Wall Street Journal riferisce di una trattativa in corso: i bond in mano agli hedge fund ribelli potrebbero essere acquistati da privati, in prima linea JpMorgan, Citigroup e Hsbc. Ma c’è anche, e soprattutto forse, un livello politico della questione: l’Argentina ha fatto ricorso alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja denunciando la decisione dei tribunali Usa come una violazione «della sovranità argentina e di altre immunità».

La partita, quindi, nonostante tutto è ancora aperta e può riservare sorprese. Una domanda però rimane: quale sarà la prossima carcassa preda degli avvoltoi?

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