21 Agosto 2013

Egitto, la via del realismo

Egitto, la via del realismo
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Sollecitato da un’amica, che mi ha invitato a leggere un’intervista del gesuita Samir Khalil, apparsa sull’Avvenire del 20 agosto, ritorno volentieri sull’argomento Egitto per alcune puntualizzazioni.

 

La prima è d’obbligo: nell’articolo accennavo che i Fratelli musulmani non sono esenti da colpe in quel che sta accadendo. Spiego meglio: la guida dell’Egitto da parte di Morsi è stata, infatti, invero, infausta. Preso il potere cavalcando l’onda della protesta popolare – al principio la Fratellanza era rimasta a guardare per poi, di fatto, sequestrare la rivolta grazie a un’organizzazione senza eguali  -, i Fratelli musulmani hanno ignorato i problemi reali del Paese perché la «priorità di Morsi è stata quella di “fratellizzare il Paese”», come spiega Khalil, ovvero di occupare posti di potere in ambito economico, politico e culturale per uniformare il Paese  alla ideologia della Fratellanza. Conseguenza di questa prospettiva, anche l’altro tragico errore: quello di evitare qualsiasi forma di dialogo e compromesso con le altre anime del Paese, condannando l’Egitto a una polarizzazione devastante tra islamici e forze laiche (e cristiani). Né sono mancate, in questo anno di gestione del potere, coperture di derive fondamentaliste, a nocumento della minoranza cristiana. Infine, e non ultimo errore, in politica estera i Fratelli musulmani hanno sostenuto la rivolta anti-Assad, in particolare i gruppi islamici più fondamentalisti.

 

Fin qui le colpe della Fratellanza, che ne stavano minando via via il credito residuo di fronte al Paese, tanto che molti analisti internazionali davano per scontato una loro sconfitta in caso di elezioni.

A questo punto è avvenuto il golpe: un’operazione che ha goduto di un vasto consenso popolare, proprio per lo scontento generalizzato verso la gestione Morsi. Seguito dalla repressione cruenta dei Fratelli musulmani. Come hanno notato diversi analisti, tale escalation, attuata nonostante agli inviti di Obama a una politica inclusiva da parte dei generali, ha trasformato i carnefici di allora in vittime, martiri anzi; sta spingendo le masse islamiche verso il fondamentalismo, annullando voci moderate presenti nella Fratellanza, che è un mondo, nonostante tutto, composito; ha incrudelito l’ostilità dei fondamentalisti verso la minoranza cristiana che, ad oggi, conta circa 70 chiese attaccate, come lamentato anche dal cardinale Leonardo Sandri; innescato una spirale di violenza i cui esiti sono al momento imprevedibili e potrebbero precipitare il Paese nell’incubo del terrorismo, con probabili infiltrazioni dei vari network del terrore.

 

Questo è il quadro attuale e che potrebbe protrarsi a lungo, anche perché è possibile che si inneschino molteplici interferenze esterne a complicare le cose. In molti, tra l’altro, hanno ricordato come i Fratelli musulmani siano sopravvissuti alla lunga repressione subita sotto il regime di Mubarak, quindi immaginarne una “liquidazione” a breve è irrealistico. Anche l’arresto del capo indiscusso della Fratellanza, quel Badie che tanti disastri ha causato con il suo oltranzismo, non è che un particolare di una lotta che potrebbe durare ancora a lungo.

 

Si è detto nel precedente articolo che a sostenere i generali sono, in particolare, l’Arabia Saudita e Israele, per motivi diversi ma convergenti.  Mentre a sostenere pubblicamente la parte avversa, dopo la defenestrazione dell’emiro del Qatar, è rimasto Erdogan, che vede nella fine dell’esperienza politica egiziana anche la conclusione del sogno neo-ottomano da lui a lungo coltivato. D’altronde proprio il ridimensionamento del Qatar e la recente rivolta popolare contro alcune derive islamiste del governo turco, che ha costretto Erdogan sulla difensiva, hanno contribuito non poco alla caduta di Morsi.

 

Infine, c’è confusione in Europa e in America che, dopo aver a lungo interferito nelle vicende del mondo arabo per i loro interessi, sostenendo anche a suon di bombe la cosiddetta Primavera araba, si ritrovano davanti a un quadro nuovo e imprevisto. Chiedere ai generali egiziani il rispetto dei diritti umani e una politica inclusiva verso gli attuali perseguitati è il minimo. Come anche sollecitarli a procedere a nuove elezioni a breve, come auspica nella sua intervista padre Khalil (ma è difficile avvenga).

Le richieste occidentali mirano a porre termine al muro contro muro,  a fermare la repressione nei confronti dei fratelli musulmani, che somiglia sempre più a una resa dei conti e ne alimenta la reazione. Richieste che vanno nella giusta direzione, certo. Ma l’Occidente finora ha fatto troppi errori in Medio Oriente perché i suoi desiderata abbiano una qualche influenza sui nuovi padroni del Cairo, forti di sponde politiche alternative, anzitutto quel mondo arabo che sta inondando l’Egitto di soldi.

E però occorre porre fine al bagno di sangue e subito. La via della riconciliazione è una strada impervia, ma inevitabile se si vogliono evitare tragedie imprevedibili. Ma perché si possa intraprendere questa strada occorre procedere con realismo, senza quelle derive idealiste che hanno accompagnato la cosiddetta Primavera araba e che tanti disastri ha comportato.

In questo senso Charles Kupchan, sul New York Times del 20 agosto ha suggerito alla Casa Bianca di collaborare con i generali – d’altronde gli Usa non possono rompere, consegnerebbero l’Egitto a Putin – senza chiedere loro un passo indietro o elezioni, ma aiutando il nuovo regime a «ricostruire l’economia e spingere al rispetto dei diritti umani»; in una prospettiva più globale che vede un nuovo approccio al mondo arabo, nel quale la diplomazia Usa dovrebbe cercare «di aiutare le autocrazie a trasformarsi in modo graduale in governi responsabili», abbandonando quella visione di una realtà «in bianco e nero, o democrazia liberale o niente» perseguita finora. In questo senso, Kupchan ha rammentato che la tensione tra idealismo e pragmatismo ha da sempre caratterizzato la politica estera Usa. «Accadde in Iran – ha spiegato al Corriere della Sera del 21 agosto  – con la rivoluzione del 1979: c’erano coloro che suggerivano di appoggiare lo scià e di tollerare la repressione per proteggere gli interessi americani, e chi invece sosteneva che bisognava puntare i piedi e sostenere la democrazia». E fu la rivoluzione khomeinista che ha consegnato l’Iran alla teocrazia per anni.

La prospettiva di Kupchan, insomma, è una sorta di accettazione del nuovo regime egiziano in cambio della fine della repressione in atto e di un’evoluzione politica meno autoreferenziale. Criticabile per tanti versi, se non inaccettabile laddove antepone gli interessi Usa alle legittime aspirazioni della popolazione egiziana – leggi elezioni -, la tesi ha però il pregio di battere la via del realismo, dal momento che si muove in una prospettiva tesa a evitare ulteriori traumi, limitare i danni e favorire un processo di sviluppo economico e politico.

Già, realismo. Ne servirà tanto per riparare i disastri provocati dagli idealisti che hanno imperversato negli ultimi anni.

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