26 Luglio 2013

"Quando lei si sentirà inutile, avrà raggiunto il suo scopo" - Intervista

di Paola Di Sabatino
"Quando lei si sentirà inutile, avrà raggiunto il suo scopo" - Intervista
Tempo di lettura: 6 minuti

 

Il presidente della Fondazione Candia, Gianmarco Liva

In occasione del trentesimo anniversario della morte del servo di Dio Marcello Candia (che peraltro, entro la fine dell’anno, sarà proclamato venerabile), Piccole Note ha intervistato il dottor Gianmarco Liva, amico di Candia e attuale presidente della “Fondazione Dottor Marcello Candia”.

 

Tra le varie figure di religiosi che hanno accompagnato il cammino di Marcello Candia, spicca quella di Giovan Battista Montini. Come si conobbero? E quant’è stato importante il contributo di Montini per l’opera di Candia?

 

Prima di partire per il Brasile, Marcello si era già occupato di missioni, quindi aveva avuto modo d’incontrare, oltre a tanti sacerdoti missionari, anche numerosi vescovi, tra i quali l’allora arcivescovo di Milano Giovan Battista Montini. I due avevano una confidenza notevole: Marcello aveva spesso parlato a Montini del suo desiderio di partire missionario, e aveva ricevuto da lui tanti incoraggiamenti. Tant’è vero che, una volta in Brasile, Candia diceva di essere un missionario laico inviato dalla Chiesa di Milano. Molto concretamente, Marcello, da «semplice battezzato» quale si è sempre definito, aveva un grande senso di attenzione e, diciamo così, di reverenza sia nei confronti della Chiesa Ambrosiana, della quale era figlio, sia verso suoi ministri. Quando poi Montini salì sul soglio di Pietro, Candia venne ricevuto più volte. In una di queste udienze, egli disse al papa che stava finalmente per partire in missione e gli parlò dell’ospedale in Amazzonia. Paolo VI allora gli disse: “Vada, vada, dottor Candia. Ma faccia in modo di costruire l’ospedale non solo per i brasiliani, ma con i brasiliani. Faccia in modo che diventi un’entità a gestione brasiliana e che a nessun povero vengano rifiutate le cure. Quando lei si sentirà inutile allora avrà raggiunto il suo scopo”. Questo fu, in sintesi, il consiglio di Montini a Candia. Marcello lo seguì pedissequamente, e ancora oggi la nostra Fondazione fa lo stesso. 

 

Quale fu il rapporto con il regime allora vigente in Brasile?

 

Non trovò resistenze ma non fu favorito in alcun modo. Quando doveva comprare un pezzo di terreno o chiedere dei permessi per le sue opere, faceva sempre molta fatica ad ottenerli. Dava fastidio che uno straniero venisse a costruire un ospedale in zone povere: per loro era inconcepibile l’idea che un ricco industriale volesse davvero occuparsi dei poveri come faceva Marcello. Nel caso dell’ospedale di Macapá, per esempio, le autorità furono molto diffidenti, perché credevano che Candia fosse interessato ai giacimenti di manganese di cui l’Amapà [regione in cui si trova Macapá ndr.] era ricco. Famose, a questo proposito, le parole che il governatore della regione rivolse a Candia qualche anno più tardi, in occasione di un incontro: “Quando seppi che un italiano voleva comprare qui in Brasile un terreno, con l’intenzione di costruirvi un ospedale per poveri e lebbrosi, credevo si trattasse di un matto. Poi, alla fine, quando ho visto entrare in funzione quella meravigliosa struttura, ho avuto la conferma: lei, dottor Candia, deve essere davvero un matto!”. Comunque, nel 1971, Manchete, il più diffuso settimanale della nazione, definì Marcello “l’uomo più buono del Brasile”.

 

Negli anni trascorsi in Amazzonia, Marcello Candia conobbe e fu vicino a tantissimi poveri, ammalati, lebbrosi… Ricorda qualche storia a lui cara?

 

C’era un bellissimo aneddoto che lui amava raccontare, sulla sua prima visita al lebbrosario di Marituba. Marcello aveva scoperto che gli hanseniani confinati in quel lazzaretto, una volta entrati, non ricevevano più visite, neanche dai propri familiari: erano come morti per il mondo. Addolorato, decise di andare lui a visitarli. Ma una volta entrato, e resosi conto di quali fossero le condizioni del lebbrosario, restò sconvolto e si sentì male. Peraltro era una giornata caldissima, quaranta gradi all’ombra, per intenderci: vuoi l’emozione, vuoi il caldo, Marcello si accasciò sotto un albero. Allora gli si fece vicina una donna, una lebbrosa tutta sporca e con una gamba sola, la quale, vedendolo così, gli chiese se poteva fare qualcosa per aiutarlo. Lui restò di stucco. Raccontando l’episodio, diceva: “Io che mi sentivo l’uomo più potente del mondo, andato lì per aiutare loro, ho invece capito come anche l’ultimo uomo della terra può essere utile al più grande”. Le chiese un bicchier d’acqua. Considerate le condizioni igieniche del lazzaretto, doveva essere tremendo bere quell’acqua, chissà da dove veniva. Lui però la bevve, per gratitudine. Una lezione che non dimenticò mai. Negli anni a venire Marcello fece una rivoluzione all’interno del lebbrosario, lo rimise completamente a nuovo. Ridiede vita, speranza a quei lebbrosi.

 

Un’azione, quest’ultima, che non aveva soltanto scopi umanitari.

 

No. Per Marcello, prima dell’azione sociale, c’era bisogno dell’azione religiosa, in sostanza di preghiera. Per questo volle costruire all’interno del lebbrosario di Marituba una casa di preghiera. All’inizio il governatore non voleva dargli i permessi per comprare un terreno là dentro. “Dottor Candia, con tutto lo spazio che c’è fuori, proprio dentro il lebbrosario vuole acquistarlo?” Gli diceva. Ma Marcello fu irremovibile e la spuntò. La voleva proprio là, la casa di preghiera. E ci portò padri e suore del PIME. In seguito fece costruire un monastero dedicato a santa Teresina (alla quale era devotissimo) anche a Macapá, dove portò le Carmelitane di Firenze, suore che hanno una vita di semiclausura: mezza giornata in preghiera e la restante dedicata all’assistenza dei malati.

 

 

Un suo ricordo di Candia…

 

Sicuramente quello relativo al nostro primo incontro. All’epoca avevo vent’anni. Venni invitato ad una cena alla quale mi dissero che era atteso anche un missionario dal Brasile. Immaginavo di incontrare un tipo un po’ dimesso, e invece vidi arrivare un signore assai distinto, in doppiopetto blu, con le rose rosse per la padrona di casa, di una simpatia straordinaria. Ma a colpirmi maggiormente fu il fatto che questo signore, saltando tutti i convenevoli, iniziò subito a raccontare ai commensali dei suoi poveri e delle miserie del Brasile. Era evidente che la sua priorità erano gli ultimi, ed era bello come cercasse di rendere partecipi i suoi interlocutori. Parlò talmente a lungo che il padrone di casa, il dottor Lazzati, suo caro amico, gli disse: “Beh, Marcello, basta parlare! Mangia un po’ questa minestra, altrimenti si fredda!”. Inutile dire che Marcello non riuscì comunque a trattenersi. Io ero stupefatto: gli feci tantissime domande e subito gli chiesi di poterlo seguire in Brasile, per aiutare la missione. Lui tentò di dissuadermi. Inutilmente però: quindici giorni dopo ero in Amazzonia con lui e vi restai quattro mesi. Così siamo diventati amici. Un anno e mezzo dopo, nell’83, lui morì. Da lì iniziò per me l’avventura con la Fondazione voluta da Marcello, che peraltro ne era stato il primo presidente.

 

La vostra Fondazione è nata per volere dello stesso Candia e ne sta portando avanti l’operato. Quali sono i progetti a cui state lavorando?

 

Ci occupiamo solo del Brasile, perché nel nostro statuto, scritto proprio da Candia, si dice che la Fondazione è nata per soccorrere i poveri nelle zone più misere di questo Paese. Ci arrivano ogni anno richieste per una cinquantina di progetti: solitamente riusciamo a finanziarne una dozzina. Al momento, sul tavolo abbiamo una casa per bambini portatori di handicap e una per ragazze madri, una scuola professionale, un centro per ragazzi drogati e un ambulatorio. Generalmente la Fondazione si occupa di interventi nell’ordine della salute, dell’educazione e dell’accoglienza. Si tratta di interventi ad hoc, studiati da missionari del posto, che poi noi valutiamo (ci rechiamo in Brasile ogni sei mesi) e finanziamo. Di solito privilegiamo richieste provenienti da congregazioni religiose o associazioni con una storia alle spalle, perché danno maggiori garanzie di continuità. Non inventiamo nulla da qui perché costerebbe troppo e vi sarebbero sicuramente delle imprecisioni. L’unica condizione è che poi i progetti siano in grado di continuare da soli.

 

In un’intervista spiegava che la vostra fondazione vive di donazioni, ma che, in più della metà dei casi, si tratta di piccoli contributi.

 

Esatto. Lo scorso anno sono state 13.000 le persone che hanno donato alla nostra Fondazione. Sono tante! Si va dai tanti piccolissimi contributi a quelli un po’ più grandi. In ogni caso, noi non capitalizziamo nulla. Tutto il denaro, fino agli ultimi spiccioli, va a finire in un unico contenitore, che poi diventa il budget dell’anno successivo. Questo è molto importante e molto bello per noi: la Fondazione non ha spese, siamo tutti volontari, non abbiamo alle spalle strutture che comportino dei costi, e quando capita di organizzare iniziative cerchiamo degli sponsor che le finanzino. Quindi tutto il denaro proveniente dalle donazioni viene speso per la realizzazione delle opere.

 

Una realtà che va avanti proprio grazie alla carità delle persone…

 

Si. E aggiunga anche un’altra parola: Provvidenza. Alle volte ci sono dei bisogni ai quali non riusciamo a far fronte… E poi, inaspettatamente, arrivano offerte particolari, che non si sa da dove vengano, e risolvono la situazione. Evidentemente è la Provvidenza che si muove a Suo modo, senza che noi lo sappiamo. È molto bello.

 

 

 

 

Come aiutare la Fondazione Dottor Marcello Candia Onlus:

 

Conti correnti bancari:
Credito Valtellinese
IBAN: IT 81 I0521601630000000035475 – Bic Swift: BPCVIT2S
Piazza San Fedele – Milano
Banca Popolare di Sondrio
IBAN: IT 91 J0569601600000005307X05
Via S.M. Fulcorina, 1 Milano

 

Conto corrente postale:
30305205 (Poste Italiane) intest. a: Fondazione Dr. Marcello Candia ONLUS

Per ulteriori informazioni:http://www.fondazionecandia.org/aiuto.asp

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