26 Settembre 2022

Iran: la morte di Amini e la rivolta che parte da lontano

Un tweet del Ron Paul Institute riprende l'articolo del New Yorker corredandolo con una bella fotografia della giornalista Masih Alinejad "non finanziata" accanto a un sorridente Mike Pompeo. Iran: la morte di Amini e la rivolta che parte da lontano
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La morte di Mahsa Amini ha suscitato una nuova ondata di proteste in Iran. La donna sarebbe stata arrestata, torturata e picchiata dalla polizia a causa del mancato rispetto della norma che impone il velo. Così la narrativa ufficiale.

In tutto l’Iran si sono verificate manifestazioni di piazza contro il governo, che hanno trovato come simbolo la rimozione del velo (l’hijab, che copre i capelli, non quello integrale, che copre il viso, in uso in altri Paesi arabi).

Secondo autorità di Teheran dietro le manifestazioni ci sarebbero le Agenzie straniere, in particolare Washington, alla quale hanno rimproverato, in maniera legittima, di piangere “lacrime di coccodrillo” per la sorte delle donne iraniane, mentre, allo stesso tempo, con le sanzioni che stringono il Paese in una morsa di ferro, le affamano (Irna).

L’ennesimo tentativo di regime-change iraniano

Insomma, sarebbe in atto un tentativo di regime-change, cosa che Washington alimenta a minaccia da anni. Ne scriveva, ad esempio, James Dobbins sul sito della Rand Corporation – organismo che ha stretti legami con la Cia – criticando delle dichiarazioni rese in tale prospettiva dall’allora Segretario di Stato Mike Pompeo.

Rigettando l’ipotesi di dar vita a un regime change iraniano, Dobbins scriveva: “La follia è a volte descritta come fare la stessa cosa ripetutamente e aspettarsi risultati diversi. Promuovere il cambio di regime in Iran si adatterebbe a questa definizione. Nel 2012, le rivolte popolari hanno rovesciato i governi di cinque paesi del Medio Oriente. Dopo qualche esitazione, l’amministrazione Obama ha espresso sostegno a queste rivoluzioni e in un paio di casi ha anche fornito supporto materiale. Sei anni dopo, Libia , Siria e Yemen sono ancora sconvolte da una guerra civile. L’Egitto ora ha un governo ancora più repressivo di quello che il popolo ha rovesciato”. Solo la Tunisia, perché meno interessante per l’America, ne è uscita non devastata.

Ma tant’è. A quanto pare ci risiamo, con i soliti corollari: alle manifestazioni di piazza dei ribelli rispondono quelle a sostegno del governo; alle violenze dei ribelli risponde quella della polizia etc. Si contano vittime e non solo della repressione, sul conto delle quali non è possibile alcuna verifica, stante che le notizia riguardanti Teheran sono spesso distorte e che le fonti governative sono di parte.

Tutto questo per una morte che potrebbe non essere avvenuta come raccontano: un video diffuso dalle autorità fa vedere quanto avvenuto alla stazione di polizia. Nel filmato si vede Amini che si accascia dopo un diverbio acceso, ma senza alcun contatto fisico, con un’altra donna, che dovrebbe essere in forza alla polizia (il video si può vedere cliccando qui). Peraltro, poi l’altra donna accorre in suo aiuto.

Sulla vicenda le autorità iraniane, compreso l’ajatollah Khamenei, hanno espresso dolore e hanno chiesto di far chiarezza. Il capo della magistratura si è impegnato in tal senso.

Resta, certo, la restrizione del velo, ma è pur vero che strumentalizzare tale vicenda per dar vita a un regime-change non fa che incrementare esponenzialmente la violenza nel Paese. Quanto avvenuto in Libia, Siria e Yemen fa intravedere la devastazione di cui è foriera tale spinta.

Che ci sia una spinta internazionale in tal senso lo indicano tanti fattori, tra cui gli attacchi di cui sono state bersaglio le ambasciate iraniane. Attacchi si sono registrati in Belgio, Svezia e Grecia. Arduo ritenere che si tratti solo di espatriati inferociti, dal momento che tali azioni implicano un coordinamento, come anche un certo lassaiz faire da parte delle forze di sicurezza straniere che dovrebbero tutelare le sedi diplomatiche, come lamenta Teheran.

Né l’America dà segno di essere indifferente a quanto accade, anzi: Washington ha deciso di sostenere in tutti i modi la rete internet iraniana, che Teheran aveva chiuso come hanno fatto in anni recenti altre nazioni interessate a tentativi di regime-change.

Per sostenere la rete usata dai ribelli iraniani il Dipartimento di Stato si è rivolto anche a Elon Mask e alla sua rete di satelliti Starlink. Sul punto si tenga presente un titolo di Politico: “UkraineX: come i satelliti spaziali di Elon Musk hanno cambiato la guerra a terra”. Insomma, di fatto, gli Usa stanno trattando quanto avviene in Iran alla stregua di una vera e propria guerra…

Masih Alinejad, l’Fbi e la rivolta del velo

Ma sulla genesi della rivolta del velo è più che istruttivo quanto si legge sul New Yorker: “Donne provenienti da tutto l’Iran si stanno togliendo l’hijab e gli stanno dando fuoco, prendendo in giro i teocrati dalla barba grigia del paese, in un susseguirsi di scene drammatiche di una popolazione che lotta per la libertà”.

“Di tutte le cose che stupiscono di quanto sta emergendo nella Repubblica islamica, forse la più notevole è il fatto che l’Iran è stato portato a questo punto, almeno in parte, da una madre di quarantasei anni, non pagata, che lavora in un rifugio dell’FBI a New York”.

“Masih Alinejad, una giornalista iraniana condannata all’esilio tredici anni fa, ha contribuito a galvanizzare le donne del paese, accumulando circa dieci milioni di follower sui suoi social media e spingendole a distruggere il simbolo più potente dell’apartheid di genere legalizzato del regime: l’hijab, il copricapo obbligatorio per tutte le donne adulte”.

“La maggior parte dei contatti di Alinejad vive in Iran, il che la rende una delle voci più potenti del Paese. Dal 2014 ha lavorato seguendo una formula semplice, dall’effetto devastante. Ha invitato le donne iraniane a filmarsi mentre sfidano la regola dell’hijab e a inviarle le prove”.

“Migliaia di donne hanno fatto quanto chiesto e Alinejad ha pubblicato video e foto che mostrano i loro capelli su Instagram, Twitter e Facebook. Quei siti sono stati bloccati dalla dittatura del Paese, ma, facendo uso di reti private virtuali, molti iraniani li hanno visti comunque. Milioni di persone hanno potuto assistere al coraggio dei loro concittadini e vedere quanto sia ampia la condivisione delle loro opinioni, cosa che, nell’ambiente soffocante dell’Iran moderno, sarebbe altrimenti impossibile”.

Così, quando la settimana scorsa sono esplose le proteste, continua il giornale, Alinejad “ha visto finalmente concretizzarsi anni di organizzazione”… Un tweet del Ron Paul Institute riprende l’articolo del New Yorker corredandolo con una bella fotografia della giornalista “non pagata” accanto a un sorridente Mike Pompeo.

Insomma, una rivolta che parte da lontano, addirittura dal 2014. Poco da aggiungere, se non che questo caos è scoppiato in concomitanza della riunione generale dell’Onu, nella quale l’Iran ha ribadito la sua volontà di giungere a un accordo sul nucleare con gli Stati Uniti.

Interessante, sul punto, un altro cenno del New Yorker: “Alinejad appare raramente in pubblico. All’inizio di questa settimana, ha guidato una folla per protestare contro l’arrivo del presidente iraniano, Ebrahim Raisi , alle Nazioni Unite”.

In questo clima infuocato, anche questo ennesimo tentativo per raggiungere un’intesa sul nucleare verrà procrastinato. E se scorrerà sangue per le vie di Teheran, sarà sotterrato definitivamente.