13 Maggio 2022

Israele e l'uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh

Israele e l'uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh
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L’uccisione di Shireen Abu Akleh, una delle più autorevoli croniste di al Jazeera, sta incendiando il Medio oriente. L’assassinio è avvenuto a Jenin, mentre documentava un’operazione dei militari di Tsahal. Per al Jazeera e i palestinesi non ci sono dubbi sulla responsabilità dell’esercito israeliano (IDF). A dare voce al dolere di al Jazeera il potente e dolente J’accuse di Andrea Mitrovica, al quale rimandiamo.

Tel Aviv, ovviamente, si difende, affermando che a colpirla potrebbero essere stati anche i palestinesi impegnati nello scontro a fuoco con i soldati israeliani. E ha aperto un’inchiesta per accertare i fatti, chiedendo ai palestinesi di parteciparvi (ma al momento non sembrano intenzionati a farlo perché reputano l’accaduto fin troppo chiaro).

È un durissimo colpo per l’immagine di Israele, tanto che, come spiega Amos Harel, su Haaretz, l’Hasbara (la macchina della propaganda israeliana) è entrata in azione, producendo un fuoco di sbarramento che andava dalla difesa più o meno ragionevole dei soldati a dei veri e propri deliri: “Alcuni – scrive Harel – sono arrivati ​​addirittura a incolpare la stessa Abu Akleh per la sua morte: non è altro che propaganda pagata dai nostri nemici, hanno affermato, e dal momento in cui [la cronista] ha scelto di entrare in una zona di combattimento, il suo sangue è stato perso”.

Ma, dopo alcune ore dall’accaduto, “l’ipocrisia è svanita“, continua Harel e “il capo di stato maggiore Aviv Kochavi ha promesso che sarebbe stato effettuato un esame approfondito delle cose e ha espresso dolore per la morte” della cronista.

Quindi, “in serata, il capo del Comando Centrale, generale Yehuda Fuchs, ha rilasciato alcune interviste alle Tv nelle quali ha lodevolmente dichiarato quel che avrebbe dovuto essere detto fin dalla mattina: in quanto guida dell’IDF, sono responsabile di tutto ciò accade in questa terra. Non volevamo che accadesse. Apriremo un’inchiesta interna per verificare se la giornalista è stata uccisa accidentalmente da uno dei nostri” (quell’accidentalmente è atto dovuto, ma suona come un evidente limite; tant’è).

A contribuire a tale svolta, aggiunge Harel, “è stata senza dubbio l’inattesa rivelazione che Abu Akleh aveva la cittadinanza americana“. E però, al di là di quanto verrà appurato e dalla potenza dell’Hasbara, commenta il cronista di Haaretz, il tribunale dell’opinione pubblica mondiale ha già emesso il suo verdetto e condannato Israele. Resta solo da vedere quanto in alto divamperanno le fiamme dell’incendio innescato dall’uccisione della giornalista.

Quanto avvenuto cade in un momento più che critico per Israele e il suo governo. Negli ultimi due mesi il Paese ha registrato una serie di attentati senza precedenti nel recente passato.

Non solo, il già fragile governo sta anche subendo pressioni debite e indebite sul fronte interno. Significativa in tal senso la lettera contenente una pallottola inviata a Bennet, che ha preceduto un’analoga missiva inviata al figlio (Israel Hayom).

Non solo, il governo ha vacillato a causa delle fibrillazioni all’interno della coalizione: la Lista araba unita ha infatti minacciato di farlo cadere. Si era perfino iniziato a parlare di elezioni anticipate quando, in extremis, lo strappo è stato ricucito. Ma, proprio mentre Bennet annunciava lo sventato pericolo, giungeva la notizia dell’uccisione di Abu Akleh (uccisa l’11 maggio, un altra volta l’infausto 11).

Così la morsa sul governo Bennet continua a stringersi: da una parte le fiamme della nuova conflittualità arabo-israeliana, che oggi vede scontri a Jenin con rischi in aumento; dall’altra le fortissime pressioni interne, come dimostra l’allarme del premier, il quale ha dichiarato che Abbas, leader della Lista araba unita, è in pericolo e “potrebbe essere assassinato” (Haaretz).

Una morsa che vede Netanyahu attendere (attivamente) alle contorsioni degli avversari nella speranza di riprendersi lo scettro perduto.

Sullo sfondo di tutto ciò, la trattativa sul nucleare iraniano che, se non avrà un esito positivo, alimenterà il parossismo le tensioni tra Israele e Iran. Il negoziato avviato da Washington con Teheran sembrava ormai felicemente chiuso quando è scoppiata, imprevista, la guerra ucraina.

Da allora in poi le trattative sono andate in stallo. Gli oppositori del negoziato sono riusciti a trovare un modo per bloccarlo, usando come pietra d’inciampo lo status dei Guardiani della rivoluzione (IRCG), che l’Iran chiede che siano rimossi dalla lista nera del terrorismo (nella quale sono stati inseriti da Trump), riportando le cose a com’erano al tempo in cui è stato siglato l’accordo.

Ma nonostante il fatto che i democratici si dicessero scandalizzati dalla decisione di Trump, si oppongono a tale richiesta, pur consapevoli che non cambierebbe granché. Lo spiegava Pietro Beinart sul New York Times riferendo la testimonianza del segretario di Stato Anthony Blinken alla Commissione per gli affari esteri del Senato, nella quale affermava che gli Usa non hanno intenzione di cancellare l’IRCG dalla lista nera, almeno non senza che la controparte accetti delle “condizioni non meglio specificate che Teheran sembra riluttante a soddisfare. [Blinken] Ha anche avvertito i senatori che se non si dovesse trovare un accordo che blocchi i progressi nucleari dell’Iran le conseguenze sarebbero gravi. Per la repubblica islamica, ha stimato, produrre un’arma nucleare è ormai solo una ‘questione di settimane'” (evidente esagerazione).

“Detto questo – si legge sul Nyt – quanto ha aggiunto Blinken è ancora più scioccante. Ha infatti dichiarato che la designazione dell’IRCG come organizzazione terrorista non ha importanza. ‘In pratica’, ha spiegato, ‘la designazione non è di molta utilità perché sono in vigore tante altre sanzioni sull’IRGC’. Per sua stessa ammissione, l’amministrazione Biden sta mettendo a rischio l’accordo sul nucleare iraniano per niente” (una considerazione analoga è esposta in un articolo di  Yair Golan e Chuck Freilich su Haaretz, al quale rimandiamo).

Se abbiamo fatto questa digressione è perché un governo Netanyahu cambierebbe tante cose. Anzitutto sull’accordo suddetto, verso il quale l’attuale governo è contrario, ma senza prodursi in eccessi. Netanyahu, come ha dimostrato in passato, lo contrasterebbe in maniera ben più aggressiva.

Il cambio di guardia a Tel Aviv, inoltre, potrebbe cambiare anche l’approccio israeliano alla guerra ucraina, verso la quale Bennet persevera in una posizione di formale equidistanza tra le parti, pur inviando aiuti a Kiev.

Un eventuale governo Netanyahu potrebbe cambiare le cose, come sembra indicare un articolo di Timesofisrael pubblicato agli inizi maggio, dedicato alla campagna globale avviata da Zelensky per procurare armi al suo Paese: “Walla news ha riferito che Zelensky ha ricevuto consigli da Srulik Einhorn, il più importante consigliere del Likud di Netanyahu nelle ultime elezioni. Secondo Walla, [il presidente ucraino] si è anche consultato con Jonatan Urich, da tempo al fianco di Netanyahu, del quale è ancora portavoce”.

 

Ps. Peraltro, si può notare che al Jazeera sta attraversando un periodo complicato rispetto alle autorità israeliane. Nella recente guerra di Gaza la torre che ospitava i suoi uffici è stata distrutta dai bombardamenti.

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