15 Settembre 2021

L' 11 settembre e l'imperialismo americano

L' 11 settembre e l'imperialismo americano
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Donald Rumsfield (a sinistra) con il presidente Gerald Ford e Dick Cheney (a destra).

 

Riportiamo quasi integralmente un articolo del Responsible Statecraft dell’11 settembre 2021 di Jim Kobe, che spiega molto bene come la politica estera degli Stati Uniti è caduta sotto l’influenza di ambiti che l’hanno spinta verso nuove e più pericolose direttrici, realizzando quell’imperialismo globale che sta tormentando il mondo.

Quando il New York Times, nel marzo 1992, pubblicò l’estratto del documento del quale stiamo trattando, suscitò un grande scalpore. Un influente democratico della commissione per le relazioni estere del Senato rimase sconvolto dalla sua ambizione, denunciandola come “‘Pax Americana’”. Un sistema di sicurezza globale in cui le minacce alla stabilità vengono represse o eliminate dal potere militare statunitense.

In effetti, la bozza della Guida alla pianificazione della Difesa, o DPG, che esponeva gli elementi base della strategia degli Stati Uniti fino alla fine del secolo, era sorprendente nella sua prospettiva, che prevedeva un dominio militare permanente degli Stati Uniti praticamente su tutta l’Eurasia, da raggiungere “dissuadendo i potenziali concorrenti persino dall’aspirare a un ruolo regionale o globale più ampio” e contrastando, con qualsiasi mezzo necessario, gli Stati che si riteneva fossero impegnati a sviluppare armi di distruzione di massa.

Scritto sotto la direzione dell’allora sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz e del suo vice, I. Lewis “Scooter” Libby , predisse un mondo in cui l’intervento militare degli Stati Uniti sarebbe diventato una “costante” del panorama geopolitico, e Washington – non le “Nazioni Unite”, che non erano menzionate, nonostante il ruolo del Consiglio di sicurezza nell’autorizzare la prima guerra del Golfo l’anno precedente – avrebbe agito come garante ultimo della pace e della sicurezza internazionale.

La “considerazione principale”, si legge nel documento, “…richiede che ci sforziamo di impedire a qualsiasi potenza ostile di dominare una regione le cui risorse potrebbero, se ne avesse un controllo consolidato, portarla ad assumere un ruolo di potenza globale… in Medio Oriente e nel sud-ovest asiatico il nostro obiettivo è quello di rimanere la potenza esterna predominante della regione”.

“Anche se gli Stati Uniti non possono diventare il ‘poliziotto’ del mondo, assumendosi la responsabilità di raddrizzare ogni torto”, aggiungeva la bozza, “noi ci assumiamo la responsabilità di affrontare selettivamente quei torti che minacciano non solo i nostri interessi, ma anche quelli dei nostri alleati o amici, o che potrebbero seriamente turbare le relazioni internazionali”.

La fuga di notizie, avvenuta sembra grazie a qualcuno al Pentagono che pensava che una visione così chiaramente imperiale dovesse essere oggetto di dibattito pubblico, suscitò un putiferio. Su insistenza dell’allora consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft e del Segretario di Stato James Baker, il DPG fu sostanzialmente attenuato quando, il mese successivo, fu reso pubblico.

Dal DPG al “nuovo secolo americano”

Ma la visione imperiale del progetto non era morta. Manteneva chiaramente un posto centrale nel cuore e nelle menti […] dell’allora segretario alla Difesa Dick Cheney, così come in quella sorta di coalizione definita Machtpolitik composta da neocon che avevano il loro focus su Israele e nazionalisti aggressivi che si erano uniti a questi a metà del 1970, quando Cheney, allora capo dello staff del presidente Ford, e l’allora capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, lavorarono con successo per far fallire gli sforzi di Henry Kissinger per promuovere una distensione con l’Unione Sovietica.

A quella coalizione si unirono in seguito, durante l’amministrazione Carter, i leader ultra-sionisti della destra cristiana e cattolica, come Jerry Falwell e William Bennett.. Tale alleanza divenne una formidabile forza politica che contribuì a portare Ronald Reagan alla presidenza e gettò le basi per l’elezione di George W. Bush 20 anni dopo.

Le idee di base del DPG, e della Machtpolitik che lo sosteneva, prese una forma istituzionale nel 1997 grazie alla realizzazione del Progetto per il Nuovo Secolo Americano (PNAC).

Fondata dai neoconservatori Robert Kagan e William Kristol , coautori di un articolo che l’anno precedente aveva avuto una grande influenza, nel quale si sosteneva la prospettiva di una benevola egemonia globale” degli Stati Uniti,  la “Dichiarazione di principi” del PNAC chiedeva “che la politica della presidenza Reagan fosse fondata sulla forza militare e la correttezza morale”; richiesta che aveva come requisito di base quello di “aumentare significativamente la spesa per la Difesa” – e ciò nonostante il fatto che il budget del Pentagono, all’epoca, fosse maggiore dei budget militari delle otto maggiori potenze straniere messe insieme.

Nonostante i nomi dei 25 firmatari del PNAC, il documento non ottenne praticamente nessuna attenzione pubblica. Quattro anni dopo, una mezza dozzina dei promotori del PNAC si sarebbe insediata ai vertici della Sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush: Cheney (vicepresidente); Rumsfeld (segretario alla Difesa); Libby (capo dello staff di Cheney e Consigliere per la Sicurezza nazionale), Wolfowitz (vice segretario alla Difesa), Zalmay Khalilzad (direttore senior del Consiglio per la Sicurezza nazionale) e Peter Rodman (assistente segretario alla Difesa per la Sicurezza internazionale).

Il PNAC, i cui documenti generalmente esponevano le prospettive sulle quali convergevano le tre fazioni dei Machtpolikers, non perse tempo nel rendere pubbliche le sue opinioni sulle situazioni regionali più specifiche, in particolare sulla politica mediorientale.

Nel 1998, pubblicò due lettere in cui esortava l’amministrazione Clinton e il Congresso, tra le altre cose, a “prepararsi a usare la forza (militare) .. per rimuovere (il presidente iracheno) Saddam (Hussein) dal potere”.

Oltre a Rumsfeld, Wolfowitz e Rodman, tra i firmatari delle missive c’erano Elliott Abrams, che sarebbe diventato Consigliere senior sul Medio Oriente nel Consiglio per la sicurezza nazionale di Bush; John Bolton, che avrebbe ricoperto incarichi di alto livello al Dipartimento di Stato e, cosa forse più importante, Richard Perle […] un neoconservatore intransigente, che Rumsfeld aveva scelto come presidente del Consiglio per la politica della Difesa.

Nel 1996, Perle aveva lavorato con i sui protetti Douglas Feith e David Wurmser su un memo realizzato per il nuovo premier israeliano Benjamin Netanyahu, nel quale si chiedeva uno sforzo aggressivo per estromettere Saddam Hussein e destabilizzare la Siria come parte della strategia per evitare a Israele di cedere terra ai palestinesi come previsto dagli accordi di Oslo.

Con l’aiuto di Perle, cinque anni dopo, Feith, sostenitore della Grande Israele, avrebbe assunto il ruolo di numero tre del Pentagono, mentre Wurmser, che nel frattempo aveva pubblicato un libro in cui sosteneva la necessità del rovesciamento di Saddam, fu assunto da Cheney come principale consigliere per il Medio Oriente.

Aggiornamento del DPG

Nel settembre 2000, il PNAC pubblicò un report di 90 pagine intitolato “Rebuilding America’s Defenses” basato per lo più sulla bozza del DPG del 1992, che veniva elogiato come un “progetto mirato a conservare il predominio degli Stati Uniti, precludendo l’ascesa di una grande potenza rivale e plasmando un nuovo sistema di sicurezza internazionale, in linea con i principi e gli interessi americani”.

Tra le altre raccomandazioni elargite per garantire la durata di tale predominio, il rapporto “Ricostruzione” chiedeva “un più ampio perimetro di sicurezza per gli Stati Uniti” oltre l’Europa occidentale e il Nord-est asiatico; “la ricollocazione delle forze basate in maniera permanente nell’Europa sudorientale e nel sud-est asiatico…”; “la creazione di una rete di ‘basi operative avanzate’ atte ad aumentare la portata delle forze attuali e future” […]; infine, “la necessità di dar vita a una moltitudine di missioni di polizia che avrebbero richiesto la presenza permanente delle forze statunitensi”,  presenza che nel DPG veniva definita “l’ospite fisso” del panorama geopolitico.

Il rapporto sollecitava anche la creazione di “Forze spaziali statunitensi che avrebbero avuto come missione il controllo dello spazio” e il rafforzamento della  presenza militare Usa nel sud-est asiatico” per “far fronte all’ascesa della Cina allo status di grande potenza”.

Com’era prevedibile, il rapporto del PNAC chiedeva anche importanti aumenti annuali dei finanziamenti diretti alla Difesa, ma osservava mestamente che, “in assenza di un evento catastrofico – come una nuova Pearl Harbour -, ci vorrà molto tempo per trovare il denaro e la volontà politica necessari per raggiungere “il dominio militare di domani”.

Il DPG realizzato

Quasi un anno dopo, l’attacco di al-Qaeda al World Trade Center di New York e al Pentagono realizzò qualcosa di simile a quanto prefigurato, e il PNAC e i suoi associati –  collocati nei ruoli chiave della Sicurezza nazionale della nuova amministrazione Bush – erano pronti a trarne pieno vantaggio, sfruttando quella che venne definita “la guerra globale al terrorismo” per i propri sogni imperiali mirati al dominio militare globale degli Stati Uniti, che comprendeva azioni di “regime-change” negli Stati del Medio Oriente ritenuti ostili agli Stati Uniti e a Israele. Appare significativo il fatto che né la bozza del DPG né il rapporto “Ricostruzione” avessero menzionato la minaccia del terrorismo proveniente da attori non statali.

Infatti, nove giorni dopo l’11 settembre, il PNAC pubblicò una nuova lettera che, oltre a sollecitare la distruzione di al-Qaeda, definiva “necessaria un’azione militare in Afghanistan” e chiedeva “un forte aumento dei finanziamenti per la Difesa; inoltre insisteva sulla necessità di “un impegno per rimuovere Saddam Hussein dal potere in Iraq … anche se non ci sono prove che collegano direttamente l’Iraq all’attacco dell’11 settembre”. La lettera citava anche le milizie di Hezbollah in Libano, Iran e Siria come futuri obiettivi per un’azione militare degli Stati Uniti nel caso in cui non si fossero piegati alle richieste degli Stati Uniti.

Mentre le forze statunitensi, alleate con l’Alleanza del Nord dell’Afghanistan, cacciavano i talebani e inseguivano le ultime propaggini di al-Qaeda in Pakistan, e mentre l’élite della politica estera e gli storici dibattevano se l'”impero” degli Stati Uniti avesse superato in potere e ampiezza quello della Gran Bretagna o di Roma, gli esponenti dell’amministrazione Bush iniziavano a prepararsi a invadere l’Iraq.

Rumsfeld spronò i suoi aiutanti a elaborare piani per colpire l’Iraq, mentre Perle, a poche ore dalla disintegrazione delle Torri Gemelle, in una trasmissione televisiva affermava che dietro gli attacchi dell’11 settembre c’era Saddam. Nelle settimane che seguirono, uomini del Pentagono e del Dipartimento di Stato furono inviati in tutto il mondo per dar corpo alle ambizioni imperiali del DPG e del PNAC con il pretesto dell’antiterrorismo e della lotta all’estremismo islamista.

Promesse o fornitura di aiuti nuovi o più efficaci – sotto forma di addestramento militare, armi, esercitazioni congiunte, supporto di intelligence, perdono di gravi violazioni dei diritti umani – furono offerte a dozzine di Paesi in cambio della creazione di basi militari Usa, dell’espansione di quelle esistenti o dell’accesso delle forze americane nelle loro basi; offerte avanzate non solo agli Stati arabi del Golfo e ai Paesi più vicini all’Afghanistan e all’Iraq (escluso l’Iran), ma anche aegli Stati ex sovietici che godevano di una posizione strategica nel Caucaso e nel cuore dell’Asia centrale, cioè alle porte di possibili futuri “concorrenti” come Russia e Cina. L’amministrazione Usa si prodigò a offrire di tutto pur di mettere un piede in quelle porte e posizionare spie ovunque.

Washington inviò in tutta fretta centinaia di soldati delle  forze speciali nel nord-est asiatico, a Mindanao, nelle Filippine, per aiutare il Paese a combattere un’insurrezione regionale associata a Al Qaeda, la prima presenza significativa di militari statunitensi in uniforme da quando Manila aveva chiuso la sua gigantesca base navale di Subic e la base aerea di Clark nel 1993.

Il capo del comando del Pacifico degli Stati Uniti visitò Hanoi per promuovere un’alleanza antiterrorismo, ma soprattutto per sollecitare “una maggiore partecipazione del Vietnam alle… attività militari regionali”, e chiedere che le navi della Marina degli Stati Uniti potessero utilizzare il porto di Cam Ranh Bay .

Fu raggiunto un accordo con Gibuti, nel Corno d’Africa, mentre, dall’altra parte del Mar Rosso, lo stesso Cheney, nel marzo 2002, durante una visita a Sana’a, concluse un’intesa che consentiva agli Usa di inviare circa 100 consiglieri militari in Yemen. Forze speciali sono state inviate anche in Georgia per aiutare Tblisi ad affrontare un’insurrezione regionale.

Alcuni critici hanno correttamente descritto tutta questa attività come “l’espansione più significativa della presenza militare globale degli Stati Uniti dalla fine della guerra fredda”, cioè esattamente ciò che prevedeva la bozza del DPG 10 anni prima.

Grazie alle tante “missioni di polizia” e alle “basi militari nuove o migliori delle precedenti” o alle “basi operative avanzate” – raccomandate dal rapporto “Ricostruzione” del 2000 -, l’esercito americano stava diventando rapidamente la “caratteristica costante” del panorama geopolitico globale […].

Questa la “Pax Americana” post 11 settembre alla quale un senatore democratico – Joseph R. Biden – si oppose con fermezza.

“Non funzionerà”, avvertì Biden all’epoca. “Puoi essere la superpotenza mondiale e non essere in grado di mantenere la pace in tutto il mondo”. In effetti, avrebbe potuto aggiungere, puoi solo peggiorare le cose.

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