24 Settembre 2020

Onu: Trump attacca la Cina, ma gli affari continuano

Onu: Trump attacca la Cina, ma gli affari continuano
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Nel suo intervento all’Onu Donald Trump ha nuovamente chiamato il mondo a unirsi in una crociata contro la Cina, come ossessivamente ripete il suo Segretario di Stato Mike Pompeo in ogni sede, Vaticano compreso.

Lo scontro durerà a lungo, né è possibile qualche cenno distensivo prima delle elezioni. Nell’aprile scorso fece notizia la rivelazione di un memo riservato, distribuito ai repubblicani dagli strateghi della campagna elettorale, nel quale si indicava loro di attaccare la Cina in ogni sede.

Il memo e Trump

In occasione dei dibattiti, alle critiche contro il presidente, anche riguardo il razzismo, si spiegava: “Non difendere Trump […] attacca la Cina” e, in particolare, il partito comunista che la governa (Politico).

“La colpa del Partito comunista cinese”, spiegava il memo, è quella di “aver nascosto il coronavirus e mentito sul suo pericolo. Ciò ha causato la pandemia e Pechino dovrebbe essere ritenuta responsabile” dei morti che si sono registrati nel mondo.

“La Cina – aggiungeva – ha causato questa pandemia coprendola, mentendo e accumulando le forniture mondiali di attrezzature mediche […] è un avversario che ha rubato milioni di posti di lavoro americani […] e mandano le minoranze religiose nei campi di concentramento” (Business Insider).

D’altronde, come spiega Politico, il documento è stato redatto da “Brett O’Donnell, uno stratega veterano dei repubblicani che ha assistito il Segretario di Stato Mike Pompeo”, che del contrasto alla Cina e all’Iran ha fatto una vera e propria ossessione.

Trump ha dovuto piegarsi (deve pur vincere la campagna elettorale e gli servono questi matti), nonostante egli abbia “elogiato la risposta cinese al coronavirus più di 30 volte tra gennaio e marzo, da quando cioè il virus ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo, secondo un conteggio fatto dalla CNN”  (The Hill).

Così, all’Onu, ha dovuto rilanciare il noioso show anti-cinese. Un discorso che non ha attecchito; tanti i Paesi, infatti, che non condividono, in maniera tacita o esplicita, l’aggressività americana nei confronti del suo competitor globale.

Il Wall Street Journal, ripreso dal Global Times, ha citato l’intervento intelligente del presidente filippino Rodrigo Duterte, che ha detto:  “Quando gli elefanti si scontrano, a essere calpestata è l’erba”.

Mentre la Bbc ha ripreso l’intervento di Emmanuel Macron, il quale “ha detto che il futuro del mondo non dovrebbe essere ridotto alla rivalità tra Stati Uniti e Cina”, e ha chiesto un “nuovo e più moderno consensus nell’affrontare le sfide globali” (sintesi del Global Times). Un cenno che rimanda al Washington consensus, cioè l’ordine economico-finanziario attuale.

Dividere ciò che è unito

Ma in generale, val la pena registrare quanto conclude il Global Times, che riferisce il punto di vista di Pechino sullo scontro attuale. Secondo gli esperti interpellati dal media cinese “le conseguenze di uno scontro Cina-Usa saranno molto più gravi della Guerra Fredda, poiché il mondo deve affrontare sfide globali molto più gravi”.

“Guardando indietro alla storia, nell’affrontare il feroce attacco delle forze fasciste durante la seconda guerra mondiale, la vittoria finale del campo alleato portò all’unità e alla cooperazione internazionale, mentre Stati Uniti e Cina combattevano fianco a fianco. Ma ora gli Stati Uniti hanno abbandonato la loro eredità storica per ricorrere al confronto, all’egemonia e all’unilateralismo”.

In realtà, il motivo per cui una nuova Guerra Fredda è più rischiosa della precedente sta proprio in questi’ultimo accenno: nel Dopoguerra il mondo si divise tra potenze che comunque avevano trovato un’unità nella lotta contro il nemico comune e la spartizione delle rispettive sfere di influenza, e le dinamiche del confronto furono di fatto concordate insieme (a Yalta).

Oggi si tratta di lacerare un mondo bene o male interconnesso (non solo dalla globalizzazione) senza alcun accordo previo né sulle aree di influenza né sui meccanismi del confronto, senza cioè tracciare delle linee rosse che evitino lo scatenarsi di una catastrofe globale (dovrebbero essere definite in corso d’opera, ma sarà esercizio arduo e complesso).

“Unica” o primus inter pares

Restano però, al di là della contrapposizione feroce, gli scambi commerciali tra le due potenze. Così il GT: “Gli esperti hanno notato che la dura retorica non ha ostacolato gli scambi pratici tra i paesi e che i legami economici sono ancora la pietra angolare delle relazioni Cina-Usa”.

“Ad agosto, le esportazioni cinesi sono aumentate del 9,5% rispetto a un anno fa, nonostante le crescenti tensioni con gli Stati Uniti. Le spedizioni dirette agli Stati Uniti sono aumentate del 20%, arrivando a 44,8 miliardi di dollari, mentre le importazioni di merci statunitensi sono aumentate dell’1,8% a un ammontare di 10,5 miliardi di dollari”.

Due considerazioni. La prima: mentre gli Usa impongono ai loro alleati di allentare i commerci con la Cina, loro continuano a fare affari.

La seconda: la sopravvivenza di un mercato comune tra le due potenze può aiutare a evitare il collasso totale delle relazioni, in attesa di tempi migliori per un’eventuale distensione.

Non avverrà, ovvio, ma è possibile, auspicabile, che certa aggressività americana, oggi fondata sulla ricerca della perduta prospettiva di un’egemonia globale, possa essere temperata dall’accettazione, previa vittoria del realismo sull’ideologia, di un mondo multilaterale, nel quale Washington sia primus inter pares.

C’è spazio per questa possibilità. In fondo, l’America First di Trump si muove, nonostante le feroci spinte contrastanti, in tale prospettiva.

 

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