24 Ottobre 2019

Siria: i curdi ringraziano Putin

Siria: i curdi ringraziano Putin
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Mazloum Abdi, Capo di Stato maggiore delle Syrian Defence Forces, ha ringraziato “il presidente Vladimir Putin e la Federazione Russa per il loro impegno per porre fine alla guerra nelle nostre regioni e per aver risparmiato ai civili tale flagello”. Questo il contenuto di una conversazione telefonica tra Abdi e il ministro della Difesa russo Sergey Shoigu (Sdf press agency).

Un “grazie” che sotterra le stucchevoli lamentele dei media occidentali, che hanno raccontato l’accordo tra Putin ed Erdogan sul Nord-Est della  Siria con malcelata ostilità.

L’accordo avrebbe dato mano libera alle operazioni turche nel Nord-Est della Siria, spiegavano tanti, interpretando in maniera stucchevole la parte dell’intesa che mira a garantire una zona di sicurezza al confine turco-siriano, libera cioè dai miliziani curdi dello Ypg e del Pkk, considerate terroriste da Ankara.

In realtà, tali milizie devono ripiegare a 32 Km dal confine turco, come sta avvenendo in questi giorni di tregua, mentre la polizia russa pattuglierà la zona per evitare scontri e infiltrazioni, in coordinato disposto con l’esercito siriano.

Non è stata data alcuna “mano libera” ai turchi, tanto che Erdogan ha comunicato a Washington la fine delle operazioni, così che questa ha posto fine alle sanzioni comminate all’inizio della campagna militare.

I curdi al tempo degli americani

I curdi, lamentavano altri analisti, sono caduti nelle mani dei russi e di Damasco, stracciandosi le vesti per la tragedia in cui sarebbero precipitati a seguito della partenza degli americani.

Ma davvero la situazione dei curdi è peggiorata? Val la pena accennare che le milizie curde del Pkk, che hanno aderito alle Sdf, non sono poi così benvolute negli Stati Uniti, dal momento che sono classificate come “terroriste” (Foreign Policy).

Da qui certa ambiguità americana nei loro confronti, assente invece a Mosca, dove i curdi siriani hanno aperto una delegazione ufficiale nel 2016, affiggendovi per l’occasione un quadro raffigurante  Abdullah Ocalan, leader del Pkk ristretto da anni in un carcere turco (Russia Today).

Se si considerano gli stretti legami tra Mosca e Damasco, si può immaginare che, al netto di influenze esterne, il dialogo tra le parti può trovare strade che altrove sarebbero più impervie.

Non solo, chi lamenta la sorte attuale dei curdi non deve aver ben presente quanto accadeva nel Nord-Est della Siria durante il controllo americano.

In anni di pax americana, infatti, i turchi hanno imperversato sui curdi quasi quotidianamente. Sarebbe lungo riportare tutti gli attacchi, riportiamo qualche esempio.

27 gennaio 2018: otto civili, tra cui cinque bambini, uccisi in un bombardamento ad Afrin. Con questi morti, salivano a 51 i siriani deceduti nell’operazione turca cominciata a inizio gennaio (al Jazeera).

3 marzo 2016: aerei turchi bombardano Afrin, 36 morti. Nel report del Guardian si specifica che si trattava del terzo raid in 48 ore, con vittime anche nei precedenti attacchi…

Uno stillicidio continuo durante il quale gli americani hanno lasciato i loro preziosi alleati anti-Isis soli a fronteggiare l’aggressività turca.

Certo, gli davano armi e munizioni, ma mai hanno chiesto seriamente ad Ankara, come ha fatto Mosca, di deporre le armi.

Né mai hanno proposto di affidare ai propri soldati in Siria, peraltro non pochi, il compito di interporsi tra le milizie curde e i turchi, come ha fatto la Russia.

Gli Usa e la “presenza infinita” in Siria

In realtà, il motivo dell’ostilità all’accordo con Mosca, che pone fine a questa macelleria, va cercato nella geopolitica.

Della sorte del popolo curdo, infatti, non importa nulla ai costruttori della narrativa mainstream, quella che discende sui cronisti dei vari media come verità rivelata.

Ciò che importa loro è che con il ritiro delle truppe americane dalla Siria viene ridimensionata la presenza Usa in Medio oriente e la sua stessa proiezione globale.

Da qui la necessità di conservare lo status quo. Una presenza militare, va ricordato, legittimata dal contrasto all’Isis (come da mandato del Congresso Usa), che in queste aree ha avuto origine. Ma che, una volta sconfitto l’Isis, è stata prolungata con la motivazione di prevenirne una nuova, eventuale, insorgenza.

Motivazione che rende la presenza Usa nella regione provvisoriamente definitiva, con prospettiva infinita, in linea con l’idea delle guerre infinite propria dei neocon.

Peraltro non si capisce perché la prevenzione del terrorismo debba avere come focus il controllo dei pozzi petroliferi siriani, a guardia dei quali dovrebbe restare un residuo contingente Usa.

Misteri dell’anti-terrorismo che ci limitiamo a registrare. E che inducono a essere cauti sull’accordo turco-russo, dal momento che è denso di criticità.

Forti sono le spinte su Trump perché riveda la decisione di ritirarsi. Ma criticità  possono arrivare anche dall’interno del magmatico ambito curdo, che non è unitario, ma frammentato e percorso da mille infiltrazioni.

Del tutto inattesa è giunta la richiesta da parte di esponenti dell’Sdf di un subitaneo intervento americano per un’asserita violazione del cessate il fuoco da parte turca (Reuters).

Non sappiamo se davvero le forze di Ankara siano colpevoli, ma il bizzarro appello interpella, dal momento che evidentemente mira a forzare Trump, derubricando l’accordo turco-russo a inutile orpello. Sviluppi da seguire.

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