24 Marzo 2016

Bruxelles: foreign fighters nelle foto di famiglia

Bruxelles: foreign fighters nelle foto di famiglia
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Sul fenomeno del terrorismo islamico «certi politici di Bruxelles hanno avuto un approccio troppo naif», ha accusato il ministro delle finanze francese Michel Sapin. Il presidente turco Tayyp Erdogan ha rincarato la dose rivelando che il Belgio aveva fatto rilasciare un terrorista che loro avevano estradato in Olanda.

 

A parte la sconfessione della magistratura belga alle accuse di Ankara, resta che gli apparati di sicurezza belgi sono al centro di polemiche incrociate. «Il Belgio conosceva i kamikaze», recita infatti il titolo a tutta pagina della Repubblica.

 

Non ci sogniamo certo di difendere la sicurezza belga che ha dimostrato falle evidenti. E però proprio il Belgio ha fatto quel che nessun apparato di sicurezza al mondo aveva fatto finora: ha preso vivo un terrorista dell’Isis, in grado quindi di fornire informazioni preziosissime (aveva detto di voler collaborare, vedremo se dopo l’attentato lo farà).

 

Un’operazione di polizia mai vista finora, nonostante le evidenti falle. Tanto che ha scatenato la rabbia dell’Isis, il quale ha motivato l’attentato a Bruxelles come una ritorsione per tale arresto (anche se un attentato come quello non si organizza in tre giorni).

 

Va inoltre considerato che le accuse alla sicurezza colabrodo del Belgio vengono dalla Francia, teatro delle stragi parigine ad opera di agenti conosciuti perfettamente dall’intelligence transalpina, e dalla Turchia, dove gli attentati si susseguono da mesi a ritmo martellante. Insomma, il pulpito da cui provengono tali prediche appare alquanto bizzarro.

 

In realtà la questione delle falle dell’intelligence riguarda tutta l’Europa e, in genere, il mondo occidentale, incapace di aggredire quelle reti terroristiche che stanno compiendo stragi sul loro territorio.

Incapacità o altro? In realtà c’è un problema di fondo e riguarda i foreign fighters, i tanti combattenti islamici che sono partiti dall’Europa per andare a combattere in Siria e in Iraq.

 

Tali foreign fighters non sono nati per germinazione spontanea. Per far arruolare decine di migliaia di persone servono reclutatori, una rete logistica ramificata, una rete informativa capillare. E soldi, tanti soldi, per tenere in piedi il tutto.

 

Una rete costruita sotto gli occhi compiaciuti dei servizi di intelligence francesi, inglesi, belgi etc.

Compiaciuti perché andavano a far guerra ad Assad, che le Cancellerie occidentali consideravano, e considerano, il nemico pubblico numero uno.

 

Cancellerie che sognavano il regime-change in Siria e l’abbattimento del dittatore, così come già avvenuto per Saddam e Gheddafi, che avrebbe schiuso loro le porte allo sfruttamento delle risorse locali, petrolio anzitutto, oltre ad offrirgli un predellino nell’angolo di terra strategicamente più importante del mondo, ovvero il Medio oriente. E consentirgli di presentare a Israele il conto per aver eliminato il suo più acerrimo avversario.

 

Qualcuno ricorderà anche l’alone di eroismo del quale erano circonfuse le reclute di questa legione straniera in partenza per la Siria. Combattenti per la libertà, appunto. Venivano intervistati sui giornali. Celebrati come martiri. La loro vita raccontata nei dettagli. Una sorta di garibaldini sui quali era nata una narrativa eroica, che irretiva e irretisce.

 

Vanessa araboBasti ricordare, non per colpevolizzare ché sono vittime di una narrativa più grande di loro, la vicenda delle due cooperanti italiane rapite in Siria: Vanessa Marzullo e Greta Ramelli. Una foto scattata prima del loro sequestro le immortala già in Siria, con una bandiera in mano, nella quale si legge la scritta in arabo: «Agli eroi del Battaglione dei Martiri. Grazie dell’ospitalità e se Dio vuole vedremo la città di Idlib libera quando torneremo».

 

Poco importava che, giunti in loco, tali eroi incrudelissero contro la popolazione locale con delitti abominevoli: assassini efferati, torture, crocifissioni, stupri… il catalogo è lungo.

A farne le spese erano anzitutto i musulmani locali (la grande maggioranza), ma anche cristiani, yazidi e le altre minoranze che in quel Paese vivevano in pace da secoli.

 

Quando tornavano in Europa, questi eroi venivano accolti come reduci di guerra. Gli apparati di sicurezza li segnalavano, mettevano le loro foto nei più riposti archivi con accanto qualche dicitura del caso, tipo “radicalizzato”,  luogo di provenienza, movimento jihadista al quale erano stati affiliati. E mettevano da parte.

 

Le reti che avevano reclutato gli eroi della libertà erano ancora lì. Nessuno le aveva toccate nel frattempo, dal momento che la prosecuzione della guerra siriana richiedeva un ciclo continuo. Solo che al lavoro solito affiancavano anche quello di dare supporto ai reduci di guerra.

 

D’altronde alcuni di questi potevano ancora risultare utili. Per un nuovo incarico presso altre milizie jihadiste: ce ne sono tante che flagellano ancora il mondo arabo.

Altri reduci, invece, potevano essere impiegati più utilmente per compiere attentati in Europa. Come è avvenuto.

 

L’intelligence francese, come quella britannica o quella belga o altre ancora potrebbero forse guardare un po’ meglio nei loro archivi prima del prossimo attentato. Magari ci troveranno foto a loro familiari, dei tanti foreign fighters che sono partiti sotto i loro occhi compiaciuti, dei tanti mediatori che li hanno reclutati e supportati in tutti questi anni. Foto di famiglia insomma.

 

 

 

 

 

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