11 Luglio 2017

In morte di al Baghdadi

In morte di al Baghdadi
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E così il terrorista più temuto del mondo è morto. Abu Bakr al Baghdadi è stato ucciso insieme a trecento dei suoi in un raid russo compiuto a fine maggio sulla città di Raqqa. Lo aveva annunciato la Russia il 22 giugno scorso aggiungendo però che la notizia non era certa.

 

Ieri però la televisione irachena Al Sumariya ha dato conferma grazie ad una fonte anonima: l’Isis, che già due giorni fa aveva tolto il divieto di parlare in pubblico della dipartita del boss, sarebbe pronto a dare la notizia, annunciando in contemporanea anche il nome del successore.

 

È un classico esempio di gestione della notizia: annunciando nello stesso tempo la morte di al Baghdadi e il nome del successore si ha l’effetto di stemperare una notizia dirompente per le sorti del movimento.

 

Probabile che invece che piangere il defunto ne venga esaltato il martirio, così da alimentare la narrativa del movimento.

Ma se la gestione della notizia da parte di Daesh (questo il nome arabo dell’Isis) è comprensibile, meno comprensibile la gestione che ne è stata fatta in Occidente.

 

Come abbiamo rilevato in altro articolo (vedi anche Piccolenote), nessuno si è interessato dell’annuncio russo e non sono state avviate le doverose verifiche in proposito. Né è stato preso in considerazione il prolungato silenzio di Daesh, che evidentemente denotava imbarazzo e, tacitamente, confermava l’avvenuto decesso di al Baghdadi.

 

Nulla di nulla, come se la notizia non fosse affatto rilevante. Evidentemente non si voleva riconoscere ai russi questo palese successo nella lotta al Terrore che, da solo, avrebbe giustificato il loro intervento in terra siriana, oggetto di tanta controversia. Tra l’altro in barba agli americani, ché le operazioni belliche contro Raqqa erano appannaggio Usa.

 

È altrettanto evidente che se al Baghdadi fosse stato eliminato dalle forze degli Stati Uniti, la notizia avrebbe fatto scorrere fiumi di inchiostro in lode dell’efficienza dell’esercito americano.

 

C’è un’evidente distorsione della macchina informativa occidentale, provocata da un riflesso condizionato, di marca antipatizzante, nei confronti di Mosca.

 

Se tale dinamica viene usata nei confronti di un evidente successo militare del quale beneficia il mondo intero, si può immaginare quanto influisca su altre tematiche riguardanti Mosca.

 

Questa sorta di russofobia è un morbo che pare abbia infettato la maggior parte dei media occidentali (con le dovute eccezioni, sia nei media che nei giornalisti). E di fatto rende la stampa, almeno sotto questo profilo, uno sorta di strumento di propaganda di quegli ambiti che spingono per un più serrato confronto Washington-Mosca.

 

Così anche la notizia della morte del Califfo verrà trattata in modo attutito: l’attenzione non sarà centrata sul successo russo quanto piuttosto sulla relatività del successo stesso, centrando l’analisi sul fatto che l’Isis continuerà nella sua attività cambiando tattica e obiettivi: non più la costruzione di un Califfato, ma un’azione a largo raggio in stile al Qaeda.

 

Ma al di là di come verrà riportata la notizia, resta che tale successo nella lotta al Terrore, perché di questo si tratta, è stato reso pubblico dopo l’accordo Trump-Putin.

 

Certo, non c’è alcun legame diretto tra quella stretta di mano e la caduta di Raqqa e l’annuncio della morte del Califfo (avvenute subito dopo l’accordo russo-americano).

 

E però indiretto sì: quell’accordo ha inferto un colpo fortissimo al Terrore togliendogli spazi di manovra (infatti esso si muove agevolmente tra le pieghe della conflittualità russo-americana).

 

Ciò lo ha reso incapace di gestire alcune situazioni. Da qui la necessità di abbandonare gli ultimi bastioni di Raqqa come anche l’impossibilità di tenere  segreta a lungo la notizia della morte del Califfo.

 

Certo, l’annuncio dell’avvenuta successione alla testa del Califfato sottende un rilancio della sua azione terroristica (giustificati i timori per un imminente attentato, stante che l’Isis vuol dimostrare appunto la sua vitalità). Ma il Terrore non può nascondere l’evidente affanno. Gli è più difficile giocare d’anticipo come ha fatto finora.

 

È un gioco sanguinario quello del Terrore globale, il cui esito però non si decide nelle periferie dell’Impero, ma nel suo cuore. Un cuore di tenebra dove ambiti più o meno occulti lavorano per costringere nell’angolo il presidente, in modo da fargli ritirare la mano tesa alla Russia o, in alternativa, di farlo cadere.

 

Se riusciranno, per il Terrore si apriranno nuovi spazi di manovra. Lo sanno bene anche tali ambiti, ma evidentemente non gli interessa. D’altronde, come ha spiegato il senatore John McCain in un’intervista pubblica, la Russia per loro è peggio dell’Isis.

 

Difficile che queste priorità siano condivise dai cittadini americani o di altre nazioni in cui l’Isis ha fatto strazio. Resta lo sconcerto per i tanti media che invece pare abbiano sposato tale scala di valori.

 

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