30 Giugno 2015

Antonio Ligabue, Autoritratto

Antonio Ligabue, Autoritratto
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Il nome di Antonio Ligabue, geniale protagonista, tanto sfortunato quanto popolare, dell’outsider art, è indissolubilmente legato a Gualtieri, il paese emiliano dove visse quasi tutta la sua epopea. E oggi Gualtieri gli dedica una mostra che riscatta le tante mostre improvvisate di cui Ligabue in questi anni è stato vittima. Giustamente per il manifesto e la copertina del catalogo è stato scelto uno dei tantissimi autoritratti che l’artista si fece.

 

È un Autoritratto, datato 1948-1950, più sofisticato di altri perché Ligabue nella composizione aggiunge elementi che evidenziano quanto fosse pensato e non solo naïf il suo approccio alla pittura. Vi si vede appeso alla parete un altro autoritratto, ma preso di profilo, mentre dalla finestra si scorge la torre, che è l’elemento più caratteristico di Gualtieri. Nella stanza invece c’è un pianoforte. È certamente uno degli autoritratti più belli di Ligabue, per quel segno nervoso e scattante, per la luminosità e per questa complessità compositiva che fa convivere sulla tela tanti elementi con geometrie una diversa dall’altra.

 

È stupenda ad esempio la resa del quadrettato della giacca e della sciarpa, reso con un tratto sottile, quasi inciso sulla tela. Come per Van Gogh, l’autoritratto per Ligabue ha una duplice funzione: è indagine su se stesso, è scavo, quasi uno specchiarsi nella propria anima inquieta; e poi è un render pubblica la propria inquietudine, la ferita interiore che lo affligge. Ma a differenza di Van Gogh, in questi autoritratti di Ligabue si scorge un elemento in più: ed è quasi un’implorazione, una muta richiesta di essere accolto e accettato.

 

Ligabue si mette a nudo, quasi sempre di tre quarti, con l’occhio grande e sgranato che buca il volto rugoso e scavato. Come ha scritto in catalogo della mostra di Gualtieri, Luciano Manicardi, monaco di Bose, questi autoritratti sono «specchio di ferocia e di violenza, specchio di pietà e di tenerezza, specchio di smarrimento e di paura». E sono specchi non solo nel senso che vi si riflette l’immagine di Ligabue, ma nel senso che ci si riflette anche la nostra, un po’ destabilizzata dall’inquietudine che Ligabue trasmette e che non si può non sentire sulla pelle.

 

Quello che l’artista esprime con il grido della sua pittura è in fondo il bisogno struggente di un rapporto che lo abbracci, che lo accolga senza chiedere precondizioni. Un rapporto che scaldi il cuore. Come testimonia quella canzone scritta dai Nomadi, suoi conterranei: «Ligabue, naso d’aquila, urla al cielo la sua pena, Cesarina, per favore, voglio un bacio, dam un bès» (ndr, Cesarina è la locandiera che Ligabue avrebbe voluto sposare). Un grido carnale, quello di Ligabue, che non vuole risposte astratte ma altrettanto carnali.

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