1 Giugno 2017

William Congdon, Pentecoste 4

William Congdon, Pentecoste 4
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Nel 1962 William Congdon era un artista convertito ma nient’affatto pacificato. Aveva ricevuto il battesimo nel 1959, si era stabilito ad Assisi che sarebbe rimasta la sua casa per 20 anni. Aveva anche conosciuto don Luigi Giussani, al quale sarebbe rimasto legato tutta la vita.

 

Insomma un uomo fedele, ma invincibilmente inquieto. In quel periodo Congdon si era dedicato in modo quasi esclusivo a soggetti religiosi, non tanto per dare segni pubblici della propria adesione alla Chiesa, quanto per un bisogno profondo di misurare la verità di quei soggetti rispetto alla propria condizione umana.

 

Non sono perciò celebrativi. Sono semmai delle continue verifiche. Nel maggio 1962 Congdon aveva anche approcciato un soggetto complicato come la Pentecoste. Ce ne restano numerose varianti. Questa Pentecoste 4 sembrerebbe la versione in cui il pensiero dell’artista arriva a una forma più compiuta.

 

Di formato quasi quadrato (124 cm per 114), dipinto come sempre su faesite, rispecchia uno schema che a Congdon piace molto, con composizione che si apre ad anfiteatro e lascia un vuoto al centro. Il soggetto viene a galla dalla superficie pittorica, come dopo una dura battaglia. Nelle sagome verticali si leggono 13 figure, quelle degli apostoli più Maria.

 

Sono come dei tizzoni ardenti, allineati e tesi. Si riconosce di ciascuno solo il bagliore del volto, che si fa largo nel tormento di una pittura davvero “bruciata”. Si capisce come il soggetto non sia scelto a caso. È congeniale alla natura di un fedele non pacificato come fu William Congdon.

 

La pittura di William Congdon in questo periodo della sua vita è infatti pittura che scotta. Pittura rovente, che si misura con il fuoco e anche con ciò che del fuoco resta: la cenere, la terra arsa, le incrostazioni, la durezza di un mondo asciugato a deserto. La Pentecoste di Congdon è come una battaglia, in cui l’attimo, il “qui ed ora”, è attraversato dal bagliore del destino finale.

 

Ma resta comunque un “qui ed ora”. C’è un’affezione che segna il suo essere artista. Un’affezione da cui Congdon non può sottrarsi tanto lo ha “preso” sin nelle midolla; che sembra quasi prosciugare la sua pittura. Ma è un’affezione che non gli risparmia dubbi, e neppure tentazioni di sottrarsi.

 

Un’affezione che non è scontata nel suo proporsi. E che non ha un percorso preventivato. La Pentecoste è un orizzonte che si apre sul destino. È amore, rischio e libertà. Il quadro di Congdon, così intenso, di una spiritualità così materica, non è semplicemente una rappresentazione della Pentecoste. È un tentativo, affascinante e imperfetto, di farne umana esperienza.

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