31 Marzo 2013

Piero della Francesca, resurrezione

Piero della Francesca, resurrezione
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Quello di rappresentare la Resurrezione è da sempre uno dei compiti più ardui per un artista. Facile scivolare nel visionario, nell’idea di un Dio superman. Ci vuole pudore, delicatezza, prudenza; ci vuole una cauta immaginazione. Ma se c’è una rappresentazione della Resurrezione che mi è sempre rimasta impressa negli occhi e nella mente è questa di Piero della Francesca, il capolavoro dipinto per il palazzo dei Conservatori di  San Sepolcro (il suo paese natale), databile intorno alla metà del 1400.

Mi ha sempre colpito perché a pelle mi è sempre sembrata un’immagine di cui non si può dubitare; un’evidenza chiara e certa.

Ma con il tempo ho imparato non si deve mai pensare che immagini così siano frutto semplicemente di un’intuizione geniale. E ho imparato che se si scava spesso si trovano spiegazioni che aiutano a render ragione di quella pur così forte impressione iniziale.

Sulla Resurrezione di Piero l’aiuto mi è venuto da un libro tanto ostico quanto “svelatore” uscito in Italia nel 2009: è scritto da un grande studioso inglese delle immagini Michael Baxandall, morto un paio di anni fa.

Baxandall scava dentro quest’immagine cogliendo particolari carichi di potenza ma oggettivamente spiazzanti dal punto di vista percettivo (ad esempio notate che la terza guardia da sinistra sembra non avere le gambe). Anche Roberto Longhi aveva colto questo spiazzamento quando aveva parlato delle quattro guardie come «i quattro spicchi di un frutto»: un’immagine che rendeva bene la forza di coesione che lega il gruppo e dall’altro rimandava a un principio ordinatore altro. Sono tante le componenti dell’affresco che Baxandall va ad indagare, con il risultato non tanto di risolvere ma di dilatare il senso di complessità e qundi il fascino di quest’opera.

E c’è un punto che riguarda proprio il cuore del dipinto (e quindi la festa della Pasqua). Baxandall coglie nel Cristo risorto «non prospettico che si rivolge a noi» una doppia matrice: «Possiamo vedere Cristo come eroe in posizione eretta o come un personaggio seduto… una delle ragioni per cui il riguardante era pronto a vedere il personaggio seduto, era l’esperienza pregressa di Cristo in Maestà… Si tratta di un’anagogia pittorica, un gioco di immagini da pittore invece che un gioco di parole da teologo». È in questa coincidenza/sovrapposizione tra un Cristo in Maestà e un Cristo che balza fuori dal sepolcro, la bellezza dell’opera di Piero. Due immagini in una sola, che comunicano così nello stesso tempo una dimensione di gloria (quindi oltre il tempo) e di vittoria (quindi dentro il tempo). Per questo è un’immagine così certa, così capace di oggettività pur nel rappresentare un fatto tanto misterioso nelle sue dinamiche.

PS: Aggiungo (solo per gli aficionados…) questa preziosa nota metodologica di Baxandall. Secondo lui il “gioco“ di cercare significati per ogni scelta operata da un pittore come Piero della Francesca è un metodo sviante: «Il problema è che in questo modo, assegnando significati qua e là, un pezzo alla volta, mandiamo in cortocircuito la forza sistemica dell’immagine al cui interno gli elementi singolarmente descritti interagiscono. In questo modo ostacoliamo un possibile superevento pittorico capace di trascenderli». (il corsivo è mio).

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