25 Aprile 2015

La guerra del tenente Cubellis

La guerra del tenente Cubellis
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È il 25 aprile, festa della liberazione. Pubblichiamo una storia, una delle tante e come altre emblematica, di guerra. Quella del tenente Guglielmo Cubellis. La storia ci è stata regalata dal sito Romafelix, così caro a noi di Piccolenote, per tanti motivi.

 

Il tenente Guglielmo Cubellis, già ferito in Croazia aveva un alto senso del dovere. Nonostante la possibilità di chiudere, grazie alla ferita, la sua personale partecipazione alla guerra, aveva chiesto di tornare al fronte. Era il 1943 quando fu destinato in Albania, incaricato di presidiare la baia del Sud. Si trasferì con la sua guarnigione su un lembo di spiaggia adriatica e lì fu dimenticato dal comando. Qualche sparatoria senza conseguenze con i partigiani locali e la crescente consapevolezza che quella guerra era ormai destinata a finire e con una sconfitta. Ma Cubellis aveva il senso del dovere, appunto, e faceva quel che doveva con l’umanità che lo contraddistingueva. Tanto da aver stroncato un vergognoso giro di taglieggio ai danni degli albanesi messo su dal suo attendente.

 

Quel pomeriggio di agosto fu il capo villaggio che si trovava nei pressi del presidio italiano a recarsi al campo chiedendo di essere ricevuto. Era il capo dei partigiani locali, lo sapeva bene il tenente, e quella visita era ben strana.

Il capo villaggio entrò nella tenda del tenente e accettò una grappa. A sua volta porse del tabacco da pipa. Esauriti i convenevoli, il capo villaggio avanzò la sua richiesta: “Tu puoi dare fucili italiani per un giorno?”.

Il tenente restò strabiliato: “Mi stai chiedendo di prestarti le nostre armi?”. Gli rimase sulle labbra il seguito: “Proprio a te, a un partigiano!”.

 

L’albanese ripeté la richiesta con innocenza. “Ma a che vi servono le armi?”, chiese il tenente.

“Mia figlia si sposa”, spiegò infine il vecchio.

Ci volle del tempo al tenente per capire. Era uso, in quel lembo di terra, che i matrimoni fossero celebrati come dei ratti. La sposa veniva rapita dal futuro marito e la sua famiglia doveva far finta di difenderla, sparare in aria e fare quanto più strepito possibile.

“Molte armi, molto onore!”.

“Ci penserò” concluse il tenente.

 

Offendere il capo villaggio non si poteva, ma neanche cedere le armi al partigiano. Quella notte il tenente escogitò una soluzione e il giorno dopo salì sulla collina.

Entrò nella casa del capo villaggio, gli offrì del tabacco e ricevette la grappa di ginepro. “Io ti darò le mie armi, ma anche i miei soldati. Loro verranno il giorno del matrimonio alla tua casa e spareranno. Molte armi, molti soldati, molto onore”.

Il vecchio chiuse gli occhi, aspirò una lunga boccata dal narghilè e disse: “Molti spari?”.

L’affare fu dunque concluso.

 

Il giorno del matrimonio i soldati si presentarono al villaggio di buonora, con le decorazioni, chi ne aveva, e tutti con le armi lucide. Presero posizione davanti alla casa della sposa e quando un giovane a cavallo arrivò e se la portò via al galoppo sotto lo sguardo compiaciuto dei parenti, gli italiani cominciarono a sparare in aria producendo quanto più frastuono possibile. Il trombettiere infervorò gli animi suonando tutto il repertorio che conosceva, dalle marce militari alle arie di opera. I soldati entrarono completamente nella parte loro assegnata, salirono in groppa ai cavalli con gli albanesi, inscenarono caroselli, galopparono per le vie del villaggio.

 

La grande festa che seguì durò giorni. Gli italiani si ritrovarono a far festa, a bere vino e a mangiar dolci intrisi nel miele al chiarore della luna piena. E a ballare, imitando i giovani albanesi che volteggiavano nei loro curiosi gonnellini bianchi. Malgrado alcuni indossassero la divisa dell’esercito invasore in quel momento erano solo dei giovani con i medesimi occhi neri e ridenti dei loro compagni di festa.

 

Durante la cerimonia il giovane tenente sedeva accanto al padre della sposa al centro del cortile. Il vecchio capo villaggio appariva pienamente soddisfatto e non nascondeva, sotto i folti baffi canuti, un sorriso compiaciuto. Al momento di congedarsi l’ufficiale ringraziò e il vecchio rispose: “La casa dell’albanese è di Dio e dell’ospite. Salam [pace ndr]”. Il tenente capì che quella volta la parola era stata scelta nella sua accezione più letterale. Divisi dalla lingua, dall’età e dai rispettivi ruoli per quei due uomini e per la loro gente, la guerra era finita.

 

Passarono giorni di quiete e di nostalgia per la Patria lontana. Ma una mattina giunse il capo del villaggio a cavallo, insieme ai suoi figli e chiese di parlare da solo al comandante. Il tenente offrì la grappa e sorrise: “Un altro matrimonio?”.

Il vecchio con un gesto deciso rifiutò il liquore. Questa volta i suoi modi mostravano l’autorevolezza di un capo: “Tedeschi ammazzare te”.

Che voleva dire? Perché avrebbero dovuto ucciderlo? Certo, da tempo i tedeschi trattavano i soldati italiani con una certa sufficienza, “maccaroni, maccaroni”. Li disprezzavano anche, ma da qui ad uccidere ce ne correva.

 

L’espressione grave, del tutto nuova sul viso del capo villaggio, convinse il tenente Cubellis a tenere in conto quel consiglio. Ordinò ai soldati di montare le mitragliatrici, mandò delle sentinelle a controllare tutti gli accessi alla baia e tormentò il marconista perché stabilisse un collegamento col comando. Fu presto chiaro che si era allo sbando e che qualcosa di grave era successo. Nei giorni successivi arrivarono notizie frammentarie: la guerra contro gli angloamericani era finita, ma proseguiva contro i tedeschi. Il tenente capì tutta la drammaticità delle parole del capo villaggio. Il vecchio era stato informato dai partigiani che soldati italiani, ignari del rovesciamento delle alleanze, erano andati incontro alle pattuglie tedesche, a quelli che ancora ritenevano dei compagni d’armi ed erano stati uccisi senza pietà, di sorpresa.

 

Erano morti senza sapere perché, per le decisioni di un governo e di un re che li avevano abbandonati al loro destino. Il tenente aveva 23 anni, quasi quanti quelli del fascismo. Finiva un’era, e lui si trovava su una spiaggia dell’Albania solo e oppresso dalla responsabilità di riportare a casa, al di là del mare, i suoi uomini. I soldati lo guardavano, sapevano che nessuna nave italiana li avrebbe raccolti; marciare attraverso la Croazia e tornare in Italia via terra era improponibile. Senza più approvvigionamenti e con l’inverno alle porte, il loro destino era segnato.

 

La speranza si espresse con la grammatica di una poesia: “Venire benzinante, portare te lontana patria”, con queste parole il capo villaggio annunciò la salvezza al tenente e ai suoi uomini.

E così avvenne. A luci spente, in una notte senza luna, un barcone di legno si avvicinò alla spiaggia. Gli uomini scesero in mare con le scarpe al collo e i pantaloni rimboccati e si imbarcarono.

 

Nessuno parlava, il silenzio profondo di quella notte scura era interrotto solo dallo sciabordio dell’acqua. Il cielo pareva una cappa di velluto scuro trapuntato da uno smisurato numero di stelle. Li avrebbe protetti nella mesta ritirata. Gli ultimi a lasciare la spiaggia furono il tenente e il suo attendente. A un cenno dell’ufficiale, l’attendente aiutò il tenente, impedito nel movimento del braccio dalla vecchia ferita, e gli sfilò l’orologio dal polso. Cubellis si voltò, lo porse al capo villaggio e abbracciò il vecchio senza parole. Quindi si imbarcò sul battello ormai stipato e, in piedi, portando la mano sinistra alla visiera, salutò.

 

Nota a margine. L’associazione Roma Felix organizza visite culturali a Roma, attraverso itinerari non usuali rispetto ai normali operatori turistici, alla scoperta di luoghi e storie straordinarie raccontate dalla città più bella del mondo.

 

 

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