27 Novembre 2012

L'Unione asiatica che piace a Obama

L'Unione asiatica che piace a Obama
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Barack Obama e Wen Jiabao

Nei giorni più bui della crisi di Gaza, in molti si sono chiesti: dov’è Obama, perché non interviene? Si è visto poi che gli Stati Uniti non sono rimasti in disparte nelle trattative tra Israele e Hamas, chiuse dall’arrivo di Hillary Clinton al Cairo. Ma nei primi giorni della scorsa settimana il presidente degli Stati Uniti era impegnato su un altro scenario, quello dell’Estremo Oriente e dell’Oceano Pacifico, dove pure si lavora per prevenire l’esplosione di nuovi conflitti regionali che potrebbero avere conseguenze su larga scala.

Non è un’esagerazione. Anche in Asia orientale è in atto un percorso simile a quello seguito dall’Europa negli ultimi sessant’anni: creare una rete di accordi economici così stretta da «rendere la guerra un atto di follia estrema». Ma a ogni giro di negoziati riemergono vecchie tensioni territoriali che rischiano di mandare tutto a monte: lo si è visto anche in questi giorni, al vertice regionale di Phnom Penh, in Cambogia. La trattativa per la creazione di una “Partnership economica regionale comprensiva” tra 16 paesi dell’Asia orientale e meridionale – inclusi Cina, India e Giappone – è stata disturbata dall’eterna disputa sulla sovranità nelle acque del Mar cinese meridionale. La Cambogia, paese ospite del vertice e alleato della Cina, ha chiesto che la questione non venisse «internazionalizzata», rimanendo fuori dalle discussioni; Vietnam e Filippine di sono opposti, facendo infuriare i cinesi. In ballo ci sono interessi economici enormi: ogni anno passano per quelle acque cinquemila miliardi di dollari di merci, per non parlare delle risorse energetiche sotto i fondali marini.

L’esercito americano ha già pronti dei “piani di contingenza” nel caso di un conflitto nel Mar cinese meridionale. Ma l’amministrazione Obama sa che «una guerra sarebbe un anatema per gli Stati Uniti come anche per la Cina», scriveva il South China Morning Post, primo quotidiano in lingua inglese di Hong Kong. Il viaggio del presidente nella regione – il primo all’estero dopo la rielezione, a indicare quale sarà la priorità di questo secondo mandato obamiano – va letto anche in questa chiave.

Il gesto più evidente è stata la conferenza stampa congiunta di Obama e del premier cinese Wen Jiabao, in cui i due hanno ribadito che «i nostri due paesi continueranno a cooperare per costruire un futuro sicuro e prospero per la regione dell’Asia e del Pacifico». Ma c’è di più. Il presidente ha lanciato segnali di distensione a ogni tappa del suo viaggio. In Birmania ha incontrato sia la leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi sia il presidente Thein Sein, già esponente della giunta militare alleata della Cina. In questo secondo incontro, per la prima volta Obama ha chiamato il paese “Myanmar” e non “Birmania”: ha usato cioè la terminologia del governo filo-cinese, e non quella dell’opposizione (adottata finora anche dalla diplomazia americana). E poi la tappa in Cambogia col presidente Hun Sen, capo del locale Partito del popolo al governo da trent’anni, da sempre vicino alla Cina.

In quest’ultimo incontro, Obama non ha mancato di criticare la Cambogia per le violazioni dei diritti umani all’interno del Paese. Ma la novità è proprio qui. L’America obamiana ha scelto la politica dell’engagement, del dialogo coi suoi rivali, come notava nei giorni scorsi il magazine americano National Journal. Non più isolamento, come negli anni in cui il mondo veniva diviso dai neoconservatori tra «volenterosi» e «Stati canaglia». Per evitare nuove guerre – questa la scommessa di Obama – è necessario parlare con tutti, buoni e “cattivi”.

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