Gaza. La nuova proposta di tregua made in Usa e il Corridoio di David

Una nuova proposta di tregua per Gaza è stata avanzata dagli Usa: la liberazione immediata di tutti gli ostaggi in cambio della pace. A parlare dell’iniziativa Bishara Bahbah, che affianca Steve Witkoff nella missione diplomatica mediorientale.
Washington, dunque, sembra aver tolto dal tavolo l’offerta di due mesi fa nonostante il fatto che, alcuni giorni fa, Hamas l’avesse accettata dopo il rifiuto opposto al tempo.
Possibile che sia un modo per superare l’ostracismo di Netanyahu, disinteressato alla recente apertura di Hamas, e per togliere a questi il pretesto per avviare la campagna contro Gaza City, che è quello di esercitare un’ulteriore pressione su Hamas perché liberi gli ostaggi.
Ma è un gioco di specchi giocato sulla pelle dei palestinesi. Né è chiaro come l’amministrazione Trump, subordinata a Israele, possa immaginare che Hamas possa fidarsi delle rassicurazioni Usa sul fatto che, una volta liberati gli ostaggi, riusciranno a placare Netanyahu, anche perché quest’ultimo ha dimostrato di non essere interessato alla loro sorte.
In sintesi, accettare la proposta rischierebbe di dare a Trump e Netanyahu la possibilità di ostentare il trofeo della liberazione degli ostaggi senza ottenere nulla. Anzi, la ritrovata libertà dei prigionieri israelani potrebbe consentire a Netanyahu di proseguire la guerra senza il fastidio delle proteste di piazza, più preoccupate per la vita degli ostaggi che per quelle dei palestinesi.
D’altro canto, l’invasione di Gaza City farà morire gli ostaggi, la cui morte sarà attribuita ad Hamas anche se causata dall’IDF, come avvenuto in passato. E ciò alimenterà la propaganda e la furia israeliana… Insomma, l’offerta pone un dilemma alla dirigenza di Hamas, che però ieri ha aperto.
In attesa, un articolo di Chaim Lavinson su Haaretz. Citiamo: “Un diplomatico di alto rango ha dichiarato ad Haaretz: ‘Sono giorni critici. Ci sono cose sottotraccia che potrebbero portare a un accordo’. Commenti che si aggiungono a quanto riferito da Raviv Drucker su Channel 13 martedì, secondo il quale il braccio destro del premier, il ministro per gli Affari strategici Ron Dermer, avrebbe detto a egiziani e qatarioti che Israele ‘non esclude un accordo parziale’, aggiungendo ‘non fatevi impressionare dalle dichiarazioni'”. Ma niente illusioni, vedremo.
Interessante un recente sondaggio dell’Israel Democracy Institute (IDI) che vede la maggioranza degli israeliani, quasi il 70%, favorevole a un accordo di pace per liberare gli ostaggi; ancora più interessante il fatto che ciò è condiviso dalla maggioranza degli elettori del Likud, il partito di Netanyahu (il 52%).
Ciò, però, è apparentemente contraddetto dalla risposta sull’espansione delle operazioni militari, dove la maggioranza dei contrari è più ristretta, il 49% contro il 42%. Ma, spiega l’IDI, è a causa della complessità delle domande, infatti “molti israeliani danno priorità al ritorno degli ostaggi, anche costi elevati, ma senza un accordo, sostengono l’espansione delle operazioni a Gaza”.
Più inquietante il dato sui favorevoli a un reinsediamento israeliano a Gaza, che sono maggioranza: il 53%. Un dato che non solo sembra vanificare i precedenti, ma palesa la grande vittoria di Netanyahu, che è riuscito a influenzare a tal punto i cittadini israeliani, che pur odiandolo per la maggior parte, concordano sulla prospettiva della Grande Israele, dal momento che l’annessione di Gaza è un tassello di tale mosaico.
Lo dimostra il piano pubblicizzato in questi giorni dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich che prevede l’annessione dell’82% della Cisgiordania. Il restante 18%, è ovvio, sarebbe destinato a campo di concentramento per i palestinesi, come le cosiddette zone sicure di Gaza e, come quelle, sede provvisoria in vista del loro trasferimento volontario all’estero, facilitato da incentivi economici e vessazioni (come fa facilmente immaginare il presente).
Mattone su mattone, sul deserto di Gaza e sul successivo deserto della Cisgiordania, a meno di sperati imprevisti, Netanyahu sta costruendo la Grande Israele, che ricomprende l’annessione del Sud del Libano e il controllo del Corridoio di David.
Quest’ultimo si estenderebbe dalle alture del Golan, occupato da Israele, alle aree della Siria abitate dai drusi – che Tel Aviv ha dichiarato sotto la propria protezione – per arrivare fino alle aree curde della Siria nordorientale controllate dalle Forze democratiche siriane (SDF) sotto l’egida americana, così da arrivare al confine dell’Iraq, per infine comprendere il Kurdistan iracheno.
Si noti come tale progetto interessi aree già apparentemente predisposte, nella mente degli strateghi del Corridoio, all’egemonia di Tel Aviv: la minoranza drusa, infatti, potrebbe accoglierlo in quanto in Israele la convivenza tra drusi ed ebrei è nei fatti; l’area controllata dalle SDF dovrebbe solo cambiare padrone, dagli Usa a Israele; infine il Kurdistan iracheno è stato predisposto a tale fine fin dall’invasione irachena del 2003, quando i curdi, alleati degli invasori, furono preservati dalla catastrofe e iniziarono a stabilire stretti rapporti con Tel Aviv, durati nel tempo.
Ma sono tante le forze di contrasto a tale progetto, a iniziare dalle popolazioni interessate, sulle quali le suggestioni di una subordinazione a Israele, finora più o meno labili, hanno suscitato rigetto; come anche i timori dei Paesi della regione, anzitutto l’Iran, che percepiscono legittimamente tale prospettiva come una minaccia esistenziale.
Ad oggi Tel Aviv non ha ancora spinto sull’acceleratore, a parte che sul martoriato Libano e sulla devastata Siria. Però, una volta completata l’annessione della Palestina e prima o dopo una nuova grande guerra contro l’Iran – che incombe – la spinta potrebbe intensificarsi, con esiti devastanti facilmente immaginabili su tutti i Paesi interessati al Corridoio e oltre.
Si realizzerebbe così, secondo gli strateghi israeliani, uno spazio di sicurezza per la Grande Israele ebraica controllato da etnie subordinate a Tel Aviv, che in geopolitica ha un’altra definizione: espansionismo. Ma sono tante le variabili e le incognite ostative che Tel Aviv potrebbe pentirsi di tale hubrys.
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