Witkoff e Kushner in Israele. La cosiddetta tregua di Gaza e i pogrom in Cisgiordania
Tempo di lettura: 4 minutiGli inviati Usa Steve Witkoff e (l’improbabile) Jared Kushner sono volati a Tel Aviv per un incontro con Netanyahu: a tema il destino dei miliziani di Hamas intrappolati nei tunnel che corrono sotto la parte di Gaza controllata da Israele e altre questioni riguardanti la cosiddetta tregua (violata impunemente da Israele: 241 i palestinesi uccisi da quando è entrata in vigore).
In attesa di chiarimenti su altro, in particolare sulla possibilità che la responsabilità degli aiuti diretti alla Striscia passi da Israele agli Usa (come ventilato da diversi media), la querelle più urgente sembra quella dei combattenti di Hamas, per i quali la dirigenza del gruppo islamico e i mediatori hanno avanzato una proposta perché gli sia consentito di esfiltrare incolumi.
Questione relativa rispetto alla tragedia che si sta consumando in questo angolo di mondo, ma che ha una sua rilevanza nell’ambito della tenuta-prosecuzione del cosiddetto cessate il fuoco, dal momento che la soluzione di tale impasse permetterebbe di togliere dal tavolo una pietra d’inciampo.
Il rischio è che i miliziani, portati alla disperazione, escano dai tunnel con successivo ingaggio con i militi dell’IDF: anche il cosiddetto cessate il fuoco cadrebbe e riprenderebbe la mattanza in grande stile.
Secondo un’indiscrezione del media israeliano Walla, “Washington ha promesso ai terroristi di Hamas un passaggio sicuro in cambio della restituzione di un ostaggio deceduto, il tenente Hadar Goldin”, le cui spoglie sono state riconsegnate ieri.
In attesa di sviluppi e che si concretizzi e prenda piede la forza di stabilizzazione arabo islamica che dovrebbe garantire la sicurezza della Striscia – sviluppo al quale hanno aderito sia Hamas che Israele (con tutte le incertezze del caso) – Tel Aviv prosegue nella sua aggressività, sia continuando a imperversare contro il Libano sia attraverso la violenze in Cisgiordania.
I raid sul Libano, che hanno ucciso diversi civili (terroristi, afferma Israele, come ormai d’uso) servono a costringere il governo di Beirut a disarmare Hezbollah senza però che, allo stesso tempo, si proceda con il ritiro delle forze israeliane che attualmente presidiano alcune zone strategiche della regione meridionale del Paese dei cedri da cui dominano tutto il territorio a Sud del fiume Litani (a circa 20 km dal confine).
La contemporaneità tra disarmo di Hezbollah e ritiro israeliano era stata stabilita al momento in cui fu siglata la tregua dell’ultima guerra, intesa che peraltro prevedeva solo lo smantellamento delle infrastrutture militari di Hezbollah e il suo disarmo a Sud del fiume Litani e non il disarmo totale come chiedono adesso Tel Aviv e il suo alleato d’Oltreoceano.
Tale disarmo priverebbe Beirut dell’unica forza che Tel Aviv rispetta/teme e lascerebbe, di fatto, il Paese del tutto inerme di fronte alle pretese del Paese confinante, che non nasconde le proprie mire sul controllo dei Libano meridionale e oltre.
Tale controllo, infatti, assicurerebbe a Israele sia l’accesso alle acque del fiume Litani – l’acqua in quell’area è risorsa strategica – sia probabilmente il libero accesso ai giacimenti di gas che si trovano sui fondali al largo delle coste del Libano meridionale, sul controllo dei quali nel 2022 incrociò le spade con Hezbollah, che lo costrinse ad accettare un compromesso.
Infine, la marginalizzazione di Hezbollah consentirebbe a Tel Aviv di costringere il Libano ad accettare l’adesione agli Accordi di Abramo (oggi rifiutata) che di fatto creano una subordinazione tra Israele e i vari associati e renderebbero/rendono Israele la potenza egemone del Medio oriente, proiettandola a status di potenza globale.
Questo il sogno geopolitico di Netanyahu che s’intreccia col sogno messianico della Grande Israele che il premier ha alimentato e cavalca per i suoi disegni più alti, che gli attirano altissime convergenze.
Quanto alla Cisgiordania e alla violenza che vi imperversa, riportiamo parte dell’editoriale di Haaretz nel quale, dopo aver ricordato i 1500 attacchi da parte dei coloni israeliani registrati dall’inizio dell’anno a oggi, annota che “anche lo scorso fine settimana, come gli altri precedenti, è stato intriso di sangue”.
“Tali incidenti – prosegue Haaretz – sono resi possibili dal fatto che le Forze di Difesa Israeliane restano a guardare e non fanno nulla per reprimere la violenza e proteggere le persone sotto attacco. Tra gli aggressori ci sono soldati in uniforme, membri delle squadre di sicurezza – emergenza degli insediamenti, che sfruttano le uniformi e le armi fornite loro per autodifesa per attaccare i palestinesi, che vogliono solo raccogliere i frutti del loro lavoro”.
“[…] L’esercito, che è sovrano nei territori occupati, è tenuto a difendere le vittime della violenza e a garantire la loro sicurezza. Proprio come quando l’IDF difende i coloni dal terrorismo palestinese, deve fare lo stesso per i palestinesi che affrontano il terrorismo ebraico”.
“Insieme alla polizia della Cisgiordania, che al momento non muove un dito per indagare sui pogrom e assicurare alla giustizia i responsabili, l’esercito deve utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione”.
“I soldati che prendono parte ai pogrom devono essere assicurati alla giustizia e gli altri aggressori consegnati alla polizia. Un capo delle IDF che non dirama ordini in proposito e un generale che non adempie ai propri doveri non sono altro che complici di questi crimini”. Si tratta di riferimenti specifici, dei quali Haaretz fa nomi e cognomi, ma quel che importa non sono i singoli, ma la connivenza, se non peggio, del governo di Tel Aviv.
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