24 Luglio 2014

Hamas e Israele, si cerca una via di uscita alla strage

Hamas e Israele, si cerca una via di uscita alla strage
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Qualcosa si muove in Medio Oriente. Ipotesi di negoziato e trattative più o meno ufficiali si intrecciano, si rincorrono, a volte con l’effetto di moltiplicare il caos, altre con esiti più efficaci, anche se solo iniziali.

Ma per avere qualche esito, i costruttori di pace (più o meno interessati a ricavarne utili, non importa se serve a risparmiare vite umane) devono avere una qualche forza: fermare un treno lanciato in una corsa folle non è facile.

Netanyahu sembra intenzionato ad andare fino in fondo, avendo come unica opzione una vittoria sul piano militare (qualcuno del suo governo spera anche di ri-occupare Gaza…). Quindi al momento non sembra interessato al negoziato. Il fallimento del tentativo di tregua mediato dall’Egitto, complici le ambiguità del Cairo, avvenuto lunedì della scorsa settimana, ha stroncato sul nascere le velleità moderatrici degli Stati Uniti, che ora si muovono con maggiore cautela.

Ma alcuni fattori internazionali possono favorire un cambiamento, prima che la tragedia che abita Gaza diventi ecatombe. Anzitutto in tutto il mondo si susseguono manifestazioni contro la guerra, da quelle venate di antisemitismo che inquietano la Francia, alla maestosa manifestazione svolta a Chicago, la città  di Obama. L’opinione pubblica internazionale, quando si scatenano conflitti, conta pochino; e però ha un suo peso specifico, tanto è vero che quando questi vengono pianificati si scelgono periodi di festività prolungata, l’estate o il Natale ad esempio, durante i quali la gente è distratta. Ma nel caso specifico di Gaza, qualcosa non è andato secondo quanto preventivato, così più la guerra continua, più queste manifestazioni sono destinate a crescere e a moltiplicarsi; fino a diventare un problema anche per quei governi che, ad oggi, non riescono a uscire dal blocco nel quale li confina l’adesione incondizionata (e senza alternative) alla tesi del diritto di Israele all’autodifesa. Ma possono diventare anche un problema per la stessa Gerusalemme: da tempo i leader della destra israeliana, e non solo loro, lamentano un isolamento internazionale. Il prolungarsi del conflitto non può che aumentare tale isolamento: una sconfitta strategica per Israele, della quale non potrà che incolpare se stessa.

Non solo, Israele ha scoperto un dissenso interno al mondo ebraico più forte di altre occasioni: sia in Israele che nel mondo, molti ebrei si sono detti contrari a questa avventura militare, alcuni con toni che fanno impallidire le più aspre critiche rivolte al governo Netanyahu e ai suoi.

E ancora: ieri, cosa inusuale mentre è in corso un conflitto tra israeliani e palestinesi, l’Alto commissario per diritti umani dell’Onu, Navi Pillay, ha dichiarato che nelle modalità con le quali Israele sta portando guerra a Gaza potrebbero rinvenirsi «crimini di guerra». È ovvio che ce ne sono: il bombardamento sui civili e sugli ospedali è espressamente vietato dalla Convenzione di Ginevra (anche Hamas tenta di colpire civili, anche queste azioni sono crimini di guerra; ma nel diritto internazionale non è una giustificazione, semmai moltiplica i crimini e i criminali). Certo, Israele può sperare che, com’è accaduto per il bombardamento di Falluja – Iraq – ad opera degli Stati Uniti, e altro, questo pronunciamento resti lettera morta. Ma è un rischio che forse non può permettersi, soprattutto se iniziassero a giungere all’Onu documentazioni rilevanti che comunque potrebbero diventare di pubblico dominio e la esporrebbero alla riprovazione internazionale. Significativo inoltre che la denuncia della Pillay è avvenuta mentre il segretario generale dell’Onu Ban Ki moon si trovava in Israele, a salutare l’uscita di scena del Presidente Shimon Peres.

Altro punto non certo secondario: scopo principale, anche se non dichiarato, di questa guerra era, nelle intenzioni degli strateghi di Gerusalemme, dividere una volta per tutte Hamas da Fatah, seppellendo quell’alleanza tra le due anime palestinesi che tanto timore e riprovazione aveva suscitato nella destra israeliana. La guerra avrebbe radicalizzato Hamas e l’avrebbe messa alla mercé delle fazioni più estremiste, creando un conflitto insanabile con la moderata Fatah. E invece ieri, dopo giorni di titubanza, gli esponenti di Fatah che si stanno muovendo sui vari tavoli del negoziato hanno detto pubblicamente che tratteranno le tregua per Hamas e alle condizioni di Hamas. Per una strana eterogenesi dei fini, quindi, questa guerra potrebbe portare come risultato l’esatto opposto di quanto si ripromettevano i governanti di Israele, ovvero un rafforzamento di quell’odiata alleanza.

Infine, c’è da registrare che anche sul piano militare le cose per Tsahal non vanno bene. L’esercito conosce il fenomeno inusuale della dissidenza interna, con cinquanta, pochi ma significativi, riservisti che hanno reso pubblico il loro rifiuto alla chiamata alle armi. Ma soprattutto la campagna militare non va come credevano gli strateghi. Fino a quando si era trattato di bombardamenti, la campagna su Gaza sembrava ripercorrere strade, purtroppo, già viste. Dopo l’invasione è successo altro: sono già 32 i militari israeliani caduti. Tanti, troppi per i numeri che si sono registrati in conflitti precedenti. Tanto che Hamas grida vittoria. Una rivendicazione inaccettabile, ovviamente, ché l’esercito israeliano conosce la leva obbligatoria e alla fine a morire è gente normale, civili come quelli che cadono a Gaza. Ma tant’è, la follia dilaga in questo conflitto. Resta che, con questi numeri, l’invasione di Gaza, più che le precedenti guerre contro Hamas, a tanti analisti ha ricordato la disastrosa avventura libanese contro Hezbollah, dove il potente esercito israeliano fu umiliato. Israele, per il quale l’esercito è sacro, può permettersi di correre un rischio del genere?

Hamas ha già vinto la sua battaglia, dal momento che non ha perso. A meno che Israele non si spinga alla ri-occupazione di Gaza o al genocidio, due opzioni che la condannerebbero all’isolamento.

Si tratta ora di porre fine alla strage, ma costruire una pace è più difficile che iniziare una guerra. Ambedue i contendenti devono risultare vincitori: Hamas si è visto, Israele dovrà accontentarsi di poter dire ai suoi cittadini di aver reso più sicura la nazione grazie alla distruzione dei tunnel del terrore e allo smantellamento, almeno parziale, dell’arsenale di Hamas.

Potrebbe bastare. Anche perché una vittoria vera, che non può sbandierare, Israele l’ha portata a casa: in questi giorni a Vienna si doveva chiudere il contenzioso sul nucleare iraniano, cosa che avrebbe sdoganato l’Iran dopo anni di isolamento, consegnandogli un nuovo ruolo in Medio Oriente. Il governo israeliano era fermamente contrario e più volte è entrato in contrasto con l’amministrazione Usa che spinge sul negoziato. Il dossier è stato rinviato a novembre, l’ennesima procrastinazione. Difficile immaginare che il clima arroventato della guerra di Gaza non abbia avuto un peso in questa dilazione.

Ma, al di là, resta la guerra e la macelleria di tanti, troppi innocenti. Di ieri la notizia che bombe non intelligenti – quando mai lo sono? –  hanno condannato un milione di persone di Gaza a vivere senz’acqua, come si legge sulla Repubblica di oggi (va di moda in questo momento, anche i miliziani di al Qaeda in Siria hanno tagliato più volte l’acqua agli abitanti di Aleppo); oltre a privarle di energia elettrica. Tempi stretti per la pace, senz’acqua e senza energia si muore più in fretta.

 

 

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