6 Febbraio 2016

La crisi libica e la morte di Giulio

La crisi libica e la morte di Giulio
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Lo stallo dei negoziati sulla Siria rende più difficile il cammino di stabilizzazione della Libia, sul cui suolo si stanno riversando miliziani dell’Isis esfiltrati dal teatro di guerra siriano e iracheno. Il dipartimento di Stato americano calcola che i miliziani del terrore in Libia sono attualmente tra le 5000 e le 6000 unità.

 

Una minaccia reale. Che può essere neutralizzata solo dalla riuscita del governo di unità nazionale sulla quale si sono impegnate le Nazioni Unite designando un primo ministro nella figura di Fayez Serraj. A lui è richiesto di formare il governo e guidare un’opera di pulizia delle milizie jihadiste supportata dalla comunità internazionale.

L’alternativa è disastrosa: un intervento militare diretto occidentale, che rilancerebbe il fondamentalismo islamico nella regione e nel mondo, come già avvenuto in passato.

 

Un intervento sul quale fanno pressione alcuni ambiti militari statunitensi tenuti a freno da Obama, come ha rivelato il New York Times alcuni giorni fa, ma anche altri ambiti, occidentali e non. Alcuni perché più interessati al petrolio libico che alla sua stabilizzazione, altri perché il conseguente rilancio dello jihadismo wahabita, oggi in ritirata in Iraq e Siria, accrescerebbe la loro influenza nel mondo arabo.

 

L’intervento diretto dell’Occidente diventerà altamente probabile se Serraj dovesse fallire. E le sue chanches di riuscita sono al momento in ribasso, tanto che non è riuscito ancora a insediarsi.

Tanti coloro che vi si oppongono. I più in maniera occulta, non potendo negare il proprio consenso in maniera manifesta a un piano di pace al quale partecipano direttamente gli Stati Uniti.

 

Ma uno degli antagonisti più temibili sta invece giocando a volto scoperto ed è il generale Khalīfa Haftar, uomo forte del governo di Tobruk.

Un ostacolo, quest’ultimo, significativo: se il nuovo presidente non trova neanche l’appoggio del parlamento di Tobruk, l’unica entità politica del dopo-Gheddafi riconosciuta a livello internazionale, non ha alcuna chanche di riuscita.

 

Un ostacolo che sembrava poter essere rimosso: «Nei giorni scorsi – scriveva Fabio Venturini sul Corriere della Sera del 4 febbraio – è sceso in campo un mediatore segreto, il presidente egiziano al-Sisi, che ha convocato al Cairo il suo protetto generale Haftar e gli ha imposto di incontrare il premier in pectore Fayez al-Sarraj. Cosa che Haftar ha subito fatto».

 

L’iniziativa di al-Sisi si inserisce nel solco dell’assertività egiziana nella Libia del post-Gheddafi, e nasce dalla preoccupazione del dilagare del caos ai suoi confini. Da tempo, infatti, l’Egitto si sta spendendo per trovare una soluzione al caos libico, alimentato anche dall’influenza della Turchia e delle monarchie del Golfo che appoggiano invece le variegate forze legate alla Fratellanza musulmana.

 

In questo scenario è piombata come una bomba la notizia dell’assassinio del povero Giulio Regeni, il ricercatore e giornalista free lance torturato e ucciso in Egitto. Un delitto di Stato, sembra, come  appaiono indicare i depistaggi posti in essere delle autorità del Cairo.

Non sappiamo chi l’abbia ucciso, né perché, ci limitiamo a riportare le conseguenze di questo crimine sullo scenario di crisi prima descritto.

 

L’assassinio ha messo l’una contro l’altra le due nazioni più interessate alla stabilizzazione della Libia, ovvero l’Italia e l’Egitto, che in caso di una nuova guerra si ritroverebbero i terroristi dentro casa. Un dissidio che non sembra essere stato placato dalle rassicurazioni del presidente egiziano riguardo le indagini in corso.

 

Al Sisi esce indebolito da questa vicenda: il governo del Cairo è finito nell’occhio del ciclone mediatico per la sua deriva autoritaria e repressiva (registriamo, en passant, che analoghe critiche non sono state mosse a Erdogan, che usa un pugno di ferro ben più duro ma che risulta un prezioso alleato dell’Occidente).

Tra l’altro, non ha giovato all’immagine del governo il fatto che il ragazzo lavorasse proprio per smascherare tale deriva.

 

Insomma, se qualcuno voleva gettare una bomba sul processo di pace libico non avrebbe trovato una leva migliore.

 

Senza voler indulgere a scenari complottisti, peraltro poco rispettosi della tragedia che ha sconvolto una famiglia e un intero paese, non pare del tutto illegittimo porsi una domanda. L’apparato di polizia e di intelligence egiziano ha tutte le ambiguità e le infiltrazioni proprie di tali apparati, che la complessa e mutevole geopolitica del Medio Oriente porta al parossismo. Possibile che qualche pezzo di tali apparati sia stato usato per un gioco al massacro con l’obiettivo di mettere in crisi il governo e mandare all’aria il processo di stabilizzazione della Libia?

 

È solo una domanda, non abbiamo alcun riscontro né, probabilmente, ne avremo mai, ché l’inchiesta sul delitto non sembra destinata a diradare le tenebre che aleggiano attorno a questo crimine: a partire dal fatto che il ragazzo era stato ucciso, e il cadavere occultato per poi essere ostentato al mondo alcuni giorni dopo (mentre sarebbe stato facile farlo sparire), provocando inevitabilmente una giusta ondata di sdegno.

 

Detto questo, anche se il delitto appartiene semplicemente alla cronaca nera, è certo che quanti tentano di mandare all’aria il processo di pace libico o guadagnare più influenza nella chiusura della partita, utilizzeranno la vicenda per tentare di mettere nell’angolo Al-Sisi.

 

Ps. En passant, si dà notizia che la Bbc ha reso pubblico un filmato sul barbaro assassinio di Gheddafi. Tenuto nascosto finora, forse era meglio lo restasse. Il rischio di alimentare la rabbia e la frustrazione dei suoi ex fedeli, che non mancano tra le tribù e i clan libici, è alto. Insomma, non favorisce di certo la riconciliazione nazionale che si sta tentando. Ma forse chi ha dato il video alla Bbc voleva proprio questo.

 

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