13 Luglio 2025

I dazi di Trump e l'ordine globale prospettato dai Brics

di Davide Malacaria
I dazi di Trump e l'ordine globale prospettato dai Brics
Tempo di lettura: 5 minuti

Per lunedì Trump ha annunciato una decisione forte contro la Russia. Secondo i media comminerà nuove sanzioni, forse quelle di cui i repubblicani parlano dallo scorso aprile, cioè dazi al 500% sulle nazioni che comprano petrolio e uranio russo e che Ursula von der Leyen aveva annunciato come iniziativa Ue nell’aprile scorso, opzione poi non concretizzata ma che vedrebbe la luce se si muovesse l’America.

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Se così sarà, tale iniziativa va letta in parallelo all’annuncio di questi giorni di un’imposizione di dazi del 50% al Brasile, motivati come atto di ritorsione contro il processo all’ex presidente Jair Bolsonaro, il Trump carioca, sotto processo per tentato golpe.

Viste nel loro insieme, tali iniziative improvvide di Trump hanno poco a che fare con la guerra ucraina, nonostante abbiano certo un collegamento, quanto con quanto accaduto a Rio in questi giorni, dal momento che la città ha ospitato il vertice dei Brics, forse il più importante da quando è nata l’istituzione. Non per nulla, poco prima di quelli contro il Brasile, Trump aveva annunciato che presto avrebbe comminato dazi a tutti i Paesi Brics.

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Una vera e propria dichiarazione di guerra, commerciale com’è proprio del senso di Trump per la politica estera, contro un organismo che diventa sempre più coeso ed amplia i livelli di cooperazione tra i Paesi membri, intensificando i rapporti commerciali e accelerando il processo di de-dollarizzazione, con il dollaro sostituito sempre più dalle valute nazionali negli scambi commerciali.

Da questo punto di vista, la funesta politica dei dazi di Trump non fa altro che favorire tale processo, dal momento che ormai è evidente che si tratta di un brutale sfoggio muscolare del dominus, essendo venuta meno l’ipocrisia della prassi sanzionatoria pregressa (che si ammantava di motivazioni libertarie), e della loro imprevedibilità, che accomuna amici e nemici. Così chi può cerca di mettersi al riparo da tali rovesci.

E chi sta nei Brics può, al contrario dei Paesi Ue che sono sempre più aggiogati a Washington, con la guerra ucraina che ha incrementato tale vassallaggio al parossismo, un processo che vedrà un ulteriore incremento con la svolta di Trump sul conflitto, che vede i Paesi europei chiamati a comprare altri armamenti statunitensi per girarli a Kiev (accadeva già con Biden, Trump ha solo esplicitato tale dinamica).

Logica commerciale per Trump, che in tal modo asseconda la vis bellica della Ue, che spinge per preservare il conflitto fino all’ultimo ucraino perché la sua miserevole leadership vede in tale crisi anche, e ora forse soprattutto, un’occasione per tentare il rilancio dell’industria del Vecchio Continente, non più basato sulle fumisterie green, ormai sconfitte dalla realtà, ma sullo sviluppo di un più disastroso apparato militare industriale autoctono generato dal Rearm Europe, che nelle intenzioni dovrebbe far da volano alla ripresa economica.

Una scommessa che, a parte i rischi connessi – che per vendere armi sono necessarie le guerre (si vis pacem para bellum è una sciocchezza spacciata per antica saggezza) – condanna i popoli europei a nuove restrizioni, com’è evidente nell’esempio americano che si vuol replicare, dove l’apparato militare industriale non dispensa ricchezza ai tanti, ma le vampirizza togliendo risorse necessarie al benessere comune.

Al solito, a guidare tale processo è la Germania che, non paga del fatto che il sostegno alla guerra ucraina abbia incenerito il suo apparato industriale, punta sulla sua continuazione per ripristinarlo in modalità monstre. Qualche psichiatra dovrebbe fare una seria indagine sulla vena masochista che sottende la leadership teutonica, che peraltro la induce a perdere tutte le guerre, guerreggiate o commerciali che siano, che intraprende.

Ma al di là delle miserie del Vecchio Continente, e per tornare ai Brics e alla disfida lanciata da Trump a quello che considera il vero competitor globale, che ha in Cina e Russia i suoi pilastri, va compresa la natura e l’esito di tale conflittualità.

Il problema, per Trump e per la classe dirigente Usa che lo sostiene, non è tanto l’esistenza dei Brics, cioè un agglomerato di Paesi che non riconoscono gli Usa come dominus incontrastato del mondo, dal momento che essi hanno compreso che la stagione dell’unipolarismo è finita né intendono rinverdirne i fasti, al contrario dei loro antagonisti interni neocon e liberal.

L’America First può tranquillamente convivere con Paesi che conservano la propria sovranità, anzi tale frammentazione gli fa agio permettendogli di contrattare da una posizione di forza con ciascuno di essi in un rapporto bilaterale. E la natura dei Brics, preservando gelosamente la sovranità di ogni singolo membro, non fa che favorire tale approccio al mondo.

Il problema è che i Brics hanno due pretese inaccettabili, sia per Trump che per il potente establishment liberal-neocon che lo avversa. Anzitutto quella di detronizzare il dollaro, togliendo agli Stati Uniti la base fondamentale della sua ricchezza.

Inoltre, quella di ripristinare un ordine internazionale basato su regole condivise, una prospettiva che contrasta sia il sistema che vedeva il mondo basato sulle regole imposte dagli Stati Uniti – con quest’ultima specifica omessa nelle dichiarazioni pubbliche – sia con la frammentazione globale sulla quale spera di ergersi come dominus l’America First di Trump.

Corollario di tale conflittualità è che nel nuovo ordine globale immaginato dai Brics non c’è posto per l’eccezionalismo Usa, follia religiosa suprematista sottesa sia all’unilateralismo che all’America First.

Resta che queste due differenti ideologie che convivono in feroce antagonismo nell’Impero occidentale hanno un approccio divergente al mondo: se l’unilateralismo ricomprende nel suo orizzonte la terza guerra mondiale, l’America First, almeno come intenzione, rifiuta tale prospettiva funesta.

Lo indica il fatto che, nonostante i disaccordi, l’America di Trump preserva i rapporti con Russia e Cina, a differenza del feroce antagonismo dell’era Biden. E ciò potrebbe portare, quando e se ci saranno le condizioni, a tracciare nuovamente delle linee rosse geopolitiche che impediscano scontri diretti tra potenze, come accadde a Yalta.

A margine, va annotato che la guerra Israele-Iran ha portato un cambiamento epocale nell’ambito dei Brics. Per la prima volta, Russia e Cina, e più quest’ultima che la prima, hanno deciso di difendere un proprio partner in modalità muscolare.

Al di là di quanto avvenuto nel corso del conflitto, che ha visto in azione missili che l’Iran deve pure aver preso da qualche parte – non ha la tecnologia per sviluppare armamenti tanto sofisticati – ha avuto un alto significato simbolico il vertice trilaterale dei ministri della Difesa di Iran, Russia e Cina a margine del summit dei ministri della Difesa dei Paesi della Shangai cooperation organisation. E che la Cina stia vendendo missili e difese anti-aeree a Teheran, mentre Mosca la sostiene in via più riservata. Un segnale che le guerre infinite, prima tollerate per calcolo o impotenza, saranno contrastate in modalità da definire.

China hosts Iran, Russia defence ministers against backdrop of 'turmoil'

Infine, sempre nell’ambito Brics, appare degna di nota la visita del ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar in Cina, la prima dopo cinque anni di conflittualità aperta o latente tra i due giganti asiatici.

Nel darne notizia, l’Hindustan Times annota che tale visita segue quelle di altri funzionari di più basso livello, segno che il processo di distensione avviato alcuni mesi fa tra Pechino e New Dehli prosegue nonostante il recente conflitto indo-pakistano abbia minacciato di incenerirlo.

 

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