14 Aprile 2014

L'Ucraina, tra federazione e guerra

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Alta tensione in Ucraina: nella zona orientale, russofona, continuano le proteste contro le autorità di Kiev. Manifestanti occupano palazzi municipali, sedi della polizia e altri edifici istituzionali, innalzando la bandiera russa. Epicentro di questo fermento la città di Donetsk, ma la protesta ormai è dilagata ed è difficile arginarla. Le autorità di Kiev hanno intimato la smobilitazione dei presidi e ufficializzato un ultimatum appena scaduto. Altrimenti le manifestazioni, che le autorità di Kiev e l’Occidente ritengono siano sostenute, anche logisticamente, da Mosca – cosa non improbabile -, saranno represse con la forza. 

Ma se è vero che Mosca sostiene i ribelli, è pur vero che i russofoni delle province orientali non riconoscono le autorità che sono andate al potere con il putsch di piazza Maidan. Se in Ucraina i russi sono minoranza, nelle regioni dell’Est sono maggioranza, e mal digeriscono lo sviluppo della situazione: percepiscono il nuovo governo di Kiev come ostile, ed è difficile dargli torto date le circostanze. Nata come una sollevazione contro la legittima autorità di Kiev, la rivolta di piazza ha assunto forti connotazioni anti-russe. Quella Russia che tanti, a Oriente, considerano la loro vera patria. Difficile non immaginare che queste minoranze non siano trattate da Kiev alla stregua di una quinta colonna del nemico. Il fatto che uno dei primi provvedimenti del nuovo governo sia stata l’abolizione del russo dall’insegnamento scolastico è chiara indicazione in tal senso. Così, a scanso di complicazioni future, a Oriente chiedono l’indizione di un referendum popolare per ottenere maggiore autonomia da Kiev. In sostanza che l’Ucraina diventi uno Stato federale, in grado di garantire le minoranze russofone.

Situazione grave, anche perché alle porte dell’Ucraina stanziano le truppe di Mosca, pronte a prestar man forte ai manifestanti, almeno secondo quanto paventano a Kiev e in molte cancellerie occidentali. E complicata dalle infiltrazioni nazifasciste del nuovo governo ucraino: il ministro degli Interni ha annunciato che è pronto ad armare “giovani patrioti”, ovvero le formazioni paramilitari nazifasciste che hanno animato piazza Maidan, per ricondurre all’ordine le province ribelli.

In genere, in occasioni simili ma ribaltate – Libia, Siria, Egitto, ma soprattutto Ucraina – l’Occidente è stato sempre pronto a dare lezioni di democrazia, invitando le autorità costituite ad ascoltare il grido della piazza. Ovviamente, inutile dirlo, qui non avviene, anzi avviene il contrario: è la piazza che dovrebbe piegarsi ai diktat del governo. In fondo, la politica è alquanto banale.

Le autorità di Kiev accusano i ribelli di terrorismo. Accusa pesantissima, che potrebbe preludere a una repressione cruenta, dal momento che i terroristi appartengono a quella vil razza dannata alla quale è negata ogni agibilità politica e di interlocuzione. In realtà, almeno al momento, i manifestanti si sono limitati a prendere i palazzi del potere senza spargimento di sangue, anche grazie alla connivenza delle autorità locali. È chiaro, invece, al di là dei proclami, che il confronto è essenzialmente politico: non si scopre oggi che l’Ucraina è divisa a metà e che tra le regioni orientali e quelle occidentali c’è diffidenza reciproca, soprattutto dopo che la parte occidentale ha scelto l’Europa e la Nato. E d’altra parte, come al solito, ci sono di mezzo i soldi: la parte Orientale è la più ricca del Paese. Facile immaginare che i russofoni temono che altri si impossessino delle loro (relative) ricchezze con la scusa della politica.

Nessuno vuole perdere: né Putin, né la Nato, né tantomeno gli attori locali di questo braccio di ferro. Ma pochi sembrano intenzionati a cercare un compromesso accettabile che poi, in fondo, non può essere altro che quello che passa attraverso un processo federativo. Non c’è altra strada; l’alternativa è un bagno di sangue nel cuore dell’Europa, cosa che sembrava appartenere a un passato remoto.

C’è il rischio, invece, che qualcuno possa accarezzare proprio questo sogno: un conflitto in piena Europa. Fin dall’inizio della crisi, infatti, sono fioccati i paralleli tra la situazione ucraina e quella afghana. Allora, si era negli anni ’80, l’intervento dell’Urss in Afghanistan  impegnò il gigante russo in un confronto talmente complesso e sfibrante che è stato annoverato tra le cause della fine dell’impero sovietico. E, oggi come allora, qualche dottor stranamore spera che l’Ucraina diventi un nuovo Afghanistan, con conseguente sconfitta dell’odiato Putin e dissoluzione dei sogni revanchisti della Russia, ormai diventata alquanto ingombrante nel consesso internazionale (se non fosse per il sostegno russo ad Assad, il regime change progettato in Siria da diversi attori internazionali sarebbe da tempo realtà).

Chi ha sostenuto e finanziato le manifestazioni di Piazza Maidan sa bene che Putin non può cedere più di tanto in Ucraina: non poteva perdere la Crimea, sede della più importante base navale russa nel Mediterraneo, né può abbandonare al proprio destino gli ucraini dell’Est, che sono russi tout court. Lo impedisce, tra l’altro, una questione di politica interna: se lo facesse il suo prestigio andrebbe in frantumi e i suoi tanti nemici, che per ora si muovono nell’ombra, userebbero il malcontento popolare per scalzarlo dal potere (e magari riconsegnare la Russia all’Occidente come accadde ai tempi di Eltsin). Tutte cose che sanno anche i sassi.

Così chi ha messo in campo i moti di piazza Maidan, lo scrivemmo allora e lo ribadiamo adesso, non puntava solo sul successo dei moti e a scalzare lo “sciocco” Yanukovich (definizione di Putin). Come tutte le strategie, la rivolta di piazza Maidan prevedeva anche un’opzione B: ovvero che l’insurrezione facesse scattare l’intervento delle truppe russe. E l’intervento c’è stato, limitatamente alla Crimea, ma, con sconcerto degli strateghi occidentali, è stato rapido e indolore, non quel bagno di sangue preventivato che avrebbe distrutto l’immagine di Putin agli occhi del mondo e segnato la sua fine. Ma se l’odiato nemico è stato abile in Crimea, dove le condizioni erano favorevoli, sembra impossibile che possa replicare nel resto dell’Ucraina. Così lo scenario cruento ipotizzato può avverarsi nelle regioni orientali: basta provocare l’orso russo con una repressione violenta dei russofoni perché questi venga finalmente coinvolto e subisca l’umiliazione preventivata. Certo, difficilmente Putin si farà attirare nella trappola, ma se e quando in Ucraina inizierà a scorrere sangue russo sarà difficile per lo Zar tenere a freno l’esercito senza apparire imbelle e traditore agli occhi dei suoi connazionali. Tra l’altro, a Kiev non mancano possibili provocatori, sia a livello istituzionale – la Timoschenko intercettata spiegava al suo interlocutore telefonico che i russi, anche quelli ucraini, devono essere «uccisi tutti» – sia tra i “giovani patrioti”.

Situazione complessa, quindi, e a rischio di far divampare un incendio nel cuore dell’Europa. Ci sono margini per una risoluzione politica: l’ipotesi di una federazione appartiene di diritto all’idea di democrazia liberale che vige in Occidente. Anzi per alcuni Stati, vedi Usa, il federalismo è uno dei principi fondanti della democrazia. Ci sarebbe materia abbondante per un compromesso accettabile. C’è da augurarsi che chi ha il compito di negoziare sappia agire con discernimento, anzitutto riponendo nella fondina le armi che oggi sono state gettate sul tavolo dei negoziati.

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