22 Aprile 2014

Ucraina: il braccio di ferro continua

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Nella scorsa settimana, Russia, Stati Uniti e Unione europea, riuniti a Ginevra, hanno trovato un accordo per ridurre la tensione in Ucraina, oggi spaccata a metà tra l’Ovest filo-occidentale e l’Est filo-russo. Sostanzialmente l’accordo prevede la smilitarizzazione delle varie milizie armate, la liberazione degli edifici occupati, l’amnistia per reati non gravi compiuti in questa fase di torbidi e un’intesa  per la tutela delle minoranze. A monitorare l’adempimento degli accordi è stata designata l’Ocse. Tutto a posto, insomma, ma niente in ordine, dal momento che ad oggi gli accordi sono rimasti lettera morta.

Le milizie di Kiev hanno ucciso alcuni filo-russi, quattro o cinque – non ci sono informazioni adeguate, soprattutto sui media occidentali -, quelle filo-russe non cedono i palazzi occupati né riconsegnano le armi – e ieri hanno anche fermato per alcune ore una giornalista conosciuta come una delle animatrici della rivolta anti-Yanukovich che si era avventurata in territorio ostile.

La tensione, quindi, più che scendere, sale. Dagli Stati Uniti si accusa la Russia di fomentare i disordini: avrebbero fatto entrare in Ucraina truppe scelte per dar man forte ai miliziani filo-russi. Putin, ovviamente, nega, ma sembra improbabile non sia così. D’altronde, anche dall’altra parte, a dar man forte ai manifestanti di Piazza Majdan sono stati professionisti addestrati in Occidente, come si legge nella Nota pubblicata sulla sezione Mondo (che dà conto solo di una parte di questi “professionisti” dell’agit prop).

L’Occidente tuona: accusa Putin di sostenere la rivolta dei russofoni, chiede la liberazione degli edifici pubblici da questi occupati e, per voce di Obama, spiega che non permetterà alla Russia di destabilizzare l’Ucraina.

Accuse alquanto strane, dal momento che a destabilizzare l’Ucraina è stato l’Occidente, grazie alla task force che ha espugnato il Parlamento legittimamente eletto. E che le milizie di piazza Majdan, senza alcun motivo, continuano ad occupare edifici pubblici nella Kiev “liberata” e a detenere armi. Ma anche questo fa parte del gioco delle parti.

Putin non sembra intenzionato a cedere e, al solito, spariglia: la Duma, il Parlamento russo, emana una legge che rende più facile l’accesso alla cittadinanza russa, creando di fatto un polo di attrazione russo rispetto ai popoli dell’Est. Ma fa anche un altro gesto di propaganda, alquanto azzeccato: chiede perdono alla minoranza tatara della Crimea che subì dure persecuzioni sotto Stalin. Una mossa dettata dalla contingenza, ovvero dall’inclusione della regione ucraina nell’ambito della Federazione russa, ma che al tempo fu sollecitata da Alexandr Solgenitsin, per anni considerato un faro dall’Occidente per la sua denuncia dei crimini del comunismo e dimenticato in fretta dopo che questi aveva espresso la sua approvazione per la politica di Putin.

Così, nonostante gli accordi, tutto resta ancora sospeso e il confronto muscolare continua. La Russia non vuole cedere completamente l’Ucraina agli avversari e permettere ai suoi nemici di piazzare i propri missili nel suo giardino d casa; gli Stati Uniti, dopo aver piazzato la bandierina del loro Risiko internazionale su Kiev, non sono disposti a concedere al nemico nessun compromesso: sia perché Putin potrebbe rivendere al mondo questo cedimento come una vittoria (dimostrerebbe che lo Zar russo è in grado di ribaltare situazioni disperate); sia perché i neocon hanno dimostrato in questi anni di non essere in grado di accedere a compromessi: lo si è visto in Afghanistan e in Iraq (e altrove), dove, piuttosto che cercare negoziati, hanno scelto la lotta all’ultimo sangue con gli oppositori, che non erano solo terroristi, lasciando dietro di loro rovine fumanti. 

Situazione complessa e in bilico in un clima da guerra fredda. Lo stallo favorisce Putin, che grazie alla sollevazione delle province orientali vede comunque confermata la sua versione che accredita i moti di Piazza Majdan come un colpo di Stato anti-russo non riconosciuto da una parte della popolazione. E forte delle posizioni riconquistate, può chiedere all’Occidente un riconoscimento di tale spaccatura, nella forma di un federalismo, cosa peraltro auspicata da diversi esponenti politici in ambito occidentale, tra i quali un grande vecchio della politica internazionale come Henry Kissinger. Anche per questo la situazione è pericolosa: qualcuno potrebbe essere tentato di far precipitare la situazione, per evitare che Putin guadagni ulteriori posizioni. D’altronde, secondo gli strateghi occidentali, la rivolta di Piazza Majdan, con l’alienazione dell’Ucraina dalla sfera di influenza russa, doveva decretare la fine dello Zar: è andata esattamente al contrario. E questo nonostante le forze in campo siano impari – gli Stati Uniti e l’Occidente hanno una potenza di fuoco, non solo sul piano militare, imparagonabile a quella russa -. Dopo lo scacco subito in Crimea, gli stessi ambiti hanno predicato ai quattro venti che la questione sarebbe stata risolta a breve, vendendo lo shale-gas Usa all’Europa e facendo collassare in poco tempo il sistema produttivo russo. Si è visto che questa rivoluzione energetica è molto più difficile, complessa e lunga di quanto ipotizzato. Si è provato con le sanzioni, ma anche queste non hanno dato alcun esito, stante che la Russia avrebbe potuto applicare a sua volta iniziative analoghe, non certo indolori per l’Europa. Anche per questo, per vincere la partita, tra gli strateghi di Piazza Majdan, ormai a corto di idee, c’è chi sogna di affidarsi ai moschetti dei neonazisti ucraini. Idea infausta. C’è chi dimentica, e vuol far dimenticare al mondo, che la Russia è una potenza nucleare… 

C’è da augurarsi che gli ambiti occidentali che finora hanno mostrato maggiore ragionevolezza nell’affronto della crisi riescano a contenere certe spinte pericolosamente eversive dell’equilibrio internazionale.

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