30 Ottobre 2013

Don Giacomo e le pecorelle smarrite che attendono tutto dal Signore

Don Giacomo e le pecorelle smarrite che attendono tutto dal Signore
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In occasione della solennità di Tutti i santi, pubblichiamo l’intervento di don Giacomo Tantardini a un convegno organizzato da FidesVita nell’ottobre del 2010 a San Benedetto del Tronto. Tema dell’incontro: La compagnia dei santi cioè degli uomini veri. La regola del web chiede brevità, ma nel caso specifico abbiamo fatto una felice eccezione. Speriamo gradita.

 

Innanzitutto ringrazio di questo invito, che mi permette di parlarvi questa sera e di parlarvi con la posizione del cuore di chi domanda al Signore. Perché la preghiera, come posizione del cuore, è come se racchiudesse tutto quello che possiamo dire tra noi. Vorrei, come prima cosa, tentare di dire cosa mi ha suggerito il titolo di questo incontro.

 

Innanzitutto il titolo generale: «Allora si alzò in piedi lo Starets Giovanni e rispose con dolcezza [anche questo “rispose con dolcezza” fa parte di quel suggerimento dell’apostolo Pietro, quando dice di rendere ragione della fede a chi lo domanda, chi domanda questa ragione, “e questo sia fatto con dolcezza e con rispetto”]: “Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui”».

Quello che abbiamo di più caro è Cristo stesso. Lui, la Sua persona e tutto ciò che viene da Lui. Perché si va a Lui attraverso quello che Lui opera, attraverso quello che viene da Lui, attraverso quello che la Sua grazia realizza in ciascuno di noi. E poi il titolo che mi è stato dato questa sera: La compagnia dei santi cioè degli uomini veri; sono stato molto contento che all’inizio don Armando [Moriconi, assistente ecclesiastico di FidesVita ndr.] abbia accennato alla verità così come Nicolino [Pompei, fondatore di FidesVita ndr.] ne ha parlato, perché la verità non è neppure una conquista, ma semplicemente un riconoscimento. Non è una conquista nostra: è la realtà che si fa incontro.

San Paolo nella Lettera ai Romani, in un brano famoso, dice che sono inescusabili non quelli che non conoscono Dio, ma quelli che Lo conoscono attraverso le creature ma attribuiscono a loro stessi questa bravura di conoscere Dio. E quindi anche che la conoscenza di Dio, la conoscenza della verità diventa una presunzione. Invece, la verità è l’accorgersi di una corrispondenza, per usare la definizione di Tommaso D’Aquino: «Adaequatio rei et intellectus», la realtà che corrisponde al cuore. Ma volevo soltanto dire che la verità non è una conquista che facciamo noi perché siamo bravi. La verità è un incontro in cui uno umilmente riconosce le cose, riconosce una cosa che corrisponde al suo cuore. Così che riconoscere la verità è sempre, in qualche modo, una domanda. È sempre, in qualche modo, «supplex confessio», così diceva l’antica liturgia. Un riconoscimento che domanda. 

 

E poi un’altra cosa vorrei citare all’inizio: un brano del discorso che papa Benedetto XVI ha fatto, a braccio, all’inizio del Sinodo dei vescovi l’11 ottobre di quest’anno. Il Papa, a un certo punto, ha parlato del capitolo 12 dell’Apocalisse di san Giovanni, quando descrive la lotta tra il drago, la Madonna e la Chiesa. Il Papa dice: «Di questa lotta nella quale noi stiamo […]»… E poi dice che in questo capitolo c’è un’immagine misteriosa: quando il drago vomita contro la Chiesa, contro la donna. Dopo che il figlio della donna, dopo che il bimbo è stato portato al trono di Dio (l’Ascensione di Gesù al cielo) e la donna rimane sulla terra, il drago vomita contro la donna un fiume per travolgerla.

E Giovanni, nell’Apocalisse, dice che la terra buona viene in aiuto alla donna. Il Papa spiega che ci sono «diverse belle interpretazioni» del fatto che è la terra che viene in aiuto alla Chiesa: è la terra che si apre in modo che il fiume d’acqua, invece di travolgere la donna, entri nella terra e la donna venga salvata; ma poi aggiunge, parlando ai vescovi, vorrei dare una mia interpretazione, e continua dicendo che la terra che assorbe questo potere, il potere di questo mondo, «è la fede dei semplici, che non si lascia travolgere da questi fiumi». E questa fede salva la madre Chiesa e salva il Suo figlio. E poi aggiunge: «“La fede dei semplici è la vera saggezza”. Questa saggezza vera della fede semplice, che non si lascia divorare dalle acque, è la forza della Chiesa».

Ecco, i santi, uomini veri, possono essere considerati (così il Nuovo Testamento li chiama) i semplici fedeli. Quelli che vivono della semplicità della fede. Quelli che vivono la fede semplice, la fede che la Chiesa, che Gesù nei Suoi sacramenti dona; che Gesù, negli incontri di grazia che attraversano la nostra vita, ha ridestato e ha reso sempre più vicina e cara al cuore.

 

Vorrei suggerire alcune immagini di questa fede semplice e di questi uomini veri, di questi santi, che hanno umilmente riconosciuto la verità, che non l’hanno creata loro e non l’hanno neppure conquistata loro, ma quando gli è venuta incontro l’hanno umilmente riconosciuta. Alcune immagini che mi sembra evidenzino non un’originalità particolare ma la cosa più generica, più comune della santità cristiana. Voglio partire da san Paolo, da una frase di papa Benedetto circa la sua conversione. Parto da san Paolo perché lo stesso cambiamento del nome indica l’umiltà di Paolo: si chiamava Saulo ed è diventato Paolo, che in latino vuol dire “poco”. Ma Paolo non solo si considera poco e si considera piccolo. Nella seconda Lettera ai Corinzi, che è quella in cui Paolo apre tutto il suo cuore dice: «Io non sono nulla».

nella Lettera a Timoteo, che abbiamo letto anche qualche settimana fa, di domenica, dice che «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei quali il primo sono io». Quindi non solo Paolo è piccolo e povero, anzi è nulla, ma è il primo dei peccatori. E quando dice «il primo dei peccatori» non lo dice per modo di dire, ma perché nella realtà è stato così. Forse le cose più belle il Papa le sta dicendo proprio nell’Angelus la domenica, perché sono discorsi brevi, poche parole; e tante volte in queste poche parole ci sono accenni proprio belli, anche poeticamente. Così semplici che possono raggiungere e commuovere il cuore.

L’anno scorso, il 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo, era domenica, e così il Papa ha descritto la conversione di Paolo e quindi la conversione del cristiano, di come si diventa cristiani: «In quel momento [quando ha incontrato Gesù, «io sono Gesù che tu perseguiti», così sulla via di Damasco] Saulo comprese che la sua salvezza [cioè la sua vita, cioè la sua felicità, cioè ciò per cui aveva vissuto e per cui in fondo era diventato persecutore dei cristiani] non dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge [come mi ha colpito l’aggettivo buone! Il Papa non dice che non dipendeva dalle opere, questo in qualche modo lo dicono tutti, ma non dipendeva dalle opere buone compiute secondo la legge di Dio], ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui [“mi ha amato e ha dato se stesso per me / dilexit me et tradidit seipsum pro me”] – il persecutore – ed era, ed è, risorto».

L’altra espressione che mi ha colpito quando ho sentito questo Angelus è: «Era, ed è, risorto». Così si diventa cristiani. Così Paolo, lui, grande, che si chiamava Saulo, come il grande re d’Israele, diventa piccolo, diventa Paolo, diventa un nulla. Perché la sua salvezza non dipende dalle opere buone che compie, ma dal fatto che Gesù era morto anche per lui. Anche questo «anche per lui», com’è bello! Anche per lui il persecutore: «Era ed è vivo». Allora questa salvezza che è la Sua presenza, che è la presenza di Gesù – chiaro che quando abbraccia, quando rende buona e lieta la libertà, poi da questa libertà abbracciata vengono anche le opere buone – ma è la Sua salvezza, è la Sua grazia che abbracciando la libertà… Lui genera nella nostra libertà anche la vita buona. Ma la salvezza dipende da Lui, dipende dalla Sua presenza. Anzi è Lui, è la Sua presenza.

 

E poi c’è un’altra frase che dice le stesse cose di Paolo ed è di Agostino. Sant’Agostino, quando descrive la sua conversione, soprattutto nel libro VII delle Confessioni, la descrive come il passaggio tra la presunzione e il riconoscimento. È bellissimo il modo in cui Agostino descrive la sua conversione perché dice che era certissimo delle verità religiose. Era certo che esisteva Dio. Era certissimo che esisteva un aldilà. Era certo che la felicità dell’uomo fosse l’unità con il Creatore. Sant’Agostino dice che era certissimo di queste cose, parlava di queste cose. Non solo era certo di queste cose, ma parlava di queste cose. Parlava di Dio e diceva che la felicità dell’uomo consiste nell’essere unito a Dio. Ma, aggiunge «un conto è sapere questo e un altro è godere di questo». Non basta sapere che la felicità è Dio. Ma come godere della felicità? Non si è felici perché si sa dov’è la felicità. Si è felici quando si gode della felicità. Non basta sapere dov’è la felicità. Non basta sapere che la felicità vera è l’unità con il Signore. Ma come godere della felicità che è il Signore? Come godere della felicità che è l’abbraccio del Signore? E Agostino dice: «Io non trovavo la strada per godere di Te, finché umilmente non abbracciai l’umile mio Dio Gesù». La conversione di Agostino sta nel passaggio (e poi lui dice dal suo tentativo di arrivare a Dio all’essere abbracciato umilmente da Gesù) dal suo tentativo, che lui chiama presunzione, di raggiungere Dio al semplice riconoscimento che il Signore gli viene vicino e lo abbraccia Lui. Questa è la prima caratteristica, secondo me, della santità cristiana. La santità cristiana è il riconoscimento che l’iniziativa è tutta di Gesù, che l’iniziativa non è nostra ma Sua, che non siamo noi che decidiamo di seguirLo, ma che è la Sua attrattiva che ci dona di volerLo seguire. 

 

Poi due altri santi: Francesco e Chiara. Di Francesco vi leggo questa frase del suo testamento che ho scoperto due o tre mesi fa andando ad Assisi. Per la prima volta sono andato nella chiesa che è stata costruita sopra la casa di Francesco. La casa di suo padre, dalla quale è uscito quando ha iniziato il cammino della sua conversione. È una chiesa recente, credo del 1600-1700, e c’è ancora una piccola parte della casa di Francesco, proprio com’era allora (c’è ancora la porta della casa dei tempi di Francesco). E in questa chiesa c’è una frase del testamento di Francesco che, da quando l’ho letta, mi accompagna come una delle cose che più ha confortato la mia vita, tanto è vero che l’ho fatta scrivere sull’ultimo numero di 30Giorni. Scrive Francesco nel suo testamento: «Dopo che il Signore quando ero nei peccati mi diede la grazia di incominciare a convertirmi [non dice di convertirmi, ma di incominciare a convertirmi. Com’è bella questa cosa! Perché questa è la cosa più evidente della santità cristiana. Di incominciare a convertirmi. Perché non basta una volta. Non basta un amore passato, se non è presente. Non si vive del passato, neppure delle cose belle del passato. Di incominciare a convertirmi: perché anche Giuda si è convertito nel primo incontro, ma poi è diventato un passato. Poi non s’è più stupito quando la Maddalena s’è messa a piangere e ha asciugato i piedi di Gesù; non si è più stupito quando Zaccheo è sceso dall’albero. Quindi ci si inizia a convertire e, se Lui non prende l’iniziativa, momento per momento, quell’inizio diventa un passato lontano, che diventa nostalgia o addirittura bestemmia. Anche Pietro, quando l’ha tradito, se non lo avesse guardato… E Gesù, voltatosi, guardò Pietro e Pietro scoppiò in pianto. Se non lo avesse guardato in quel momento, dopo il tradimento, e se quello sguardo non avesse destato quel pianto, quell’incontro di tre anni prima sarebbe diventato soltanto lo spunto di una disperazione] e mi condusse fra i lebbrosi e usai con essi misericordia. Io attesi un poco e uscii dal mondo». Ho letto questo brano perché quell’incominciare è una cosa stupenda. Dice che sempre, istante per istante, siamo sospesi all’iniziativa della grazia. Dice che si vive del presente, che non si può vivere di un amore passato. Non si può vivere neppure della grazia passata. Si vive sempre dell’iniziativa Sua nel presente.

 

E poi questa frase di santa Chiara. Ero già stato tante volte nella chiesa di San Damiano ma qualche mese fa, per la prima volta, sono salito al piano superiore. La chiesa di Santa Chiara è bella perché i luoghi del monastero di Chiara sono rimasti tali e quali a quelli di quando Chiara con le sue sorelle, di cui una carnale, ha vissuto. Nel piano superiore c’è il dormitorio dove dormivano le prime clarisse e in un angolo c’è il letto di Chiara, dove Chiara morì l’11 agosto del 1253, ventisette anni dopo Francesco. Sono molto belle anche alcune immagini della mostra su san Francesco, quando si vede Francesco morto che viene portato in Assisi e, prima di entrare ad Assisi, passa da San Damiano e le clarisse vanno a venerare il corpo di Francesco. Due giorni prima che morisse, il 9 agosto, il Papa va a trovare Chiara e le porta la Regola bollata, cioè non solo approvata come era stata approvata all’inizio da Innocenzo III, ma approvata, direi, ufficialmente dalla Sede apostolica.

Chiara aveva detto che avrebbe aspettato questo gesto di carità del Papa prima di morire. Infatti, il Papa va a trovarla il 9 agosto e lei muore l’11 agosto. E prima di morire dice queste parole (perché è stata cosciente fino agli ultimi istanti): «Va’ sicura e in pace, anima mia benedetta. Colui che t’ha creato e santificato, ti ha amato sempre teneramente come la madre il suo figliolo piccolino». «Sempre teneramente [la tenerezza di questo amore] come la madre il suo figlio piccolino». «E Tu, Signore, sii benedetto perché mi hai creato». È questo amore, istante per istante, la tenerezza di questo amore, come la mamma un suo figlio piccolino, che rende grati della vita, che rende grati degli anni della vita, che rende grati di tutto; di tutto quello che la vita ha attraversato. Di tutto. Rende grati persino, e non credo di dire uno sproposito, ma visto che papa Luciani l’ha detto proprio con queste parole «ma anche se è uno sproposito lo voglio dire», del fatto che il Signore ha permesso i peccati. Perché se non avesse permesso i peccati forse non potremmo essere così umili. Non potremmo essere umili davanti a Lui. Il Signore, diceva papa Luciani nella prima udienza generale da Papa, in quei trentatré giorni stupendi di pontificato, ama talmente l’umiltà che può permettere dei peccati gravi, perché dopo che uno ha commesso certi peccati gravi non si può più considerare un santo, ma si considera un povero peccatore. Ed è questa umiltà a cui il Signore dona la Sua grazia. Questi sono stati accenni a due santi: Francesco e Chiara.

 

Adesso altri due: santa Bernadette e santa Teresina. La cosa che più colpisce, almeno personalmente, nella vita di santa Bernadette, è l’intelligenza, il realismo di questa piccola creatura, cui la Madonna ha fatto la grazia di farsi vedere a Lourdes. Scrive Bernadette: «O Vergine Maria […], se ci fosse stata sulla terra una giovane più insignificante, non avreste scelto me». Anche qui, come è bella la parola insignificante! Comunque, di Bernadette a me colpisce proprio il realismo dell’intelligenza quando racconta le apparizioni di Lourdes e nel dialogo con le sorelle suore, quando va a Nevers a vivere nel convento con le suore.

Qualche settimana fa ho letto un brano di sant’Agostino che mi ha colpito moltissimo. Sant’Agostino sta commentando la frase di san Paolo: «Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia». Sta commentando le frasi di Gesù sull’essere bambini: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli»; e commenta anche la frase di san Paolo che dice che non bisogna essere bambini in quanto a giudizi, cioè in quanto a intelligenza della realtà, ma bisogna essere bambini in quanto a malizia. E Agostino dice: «Come si fa a non essere bambini in quanto a intelligenza della realtà?». E riassume con questa frase che è così stupenda anche in latino: «Nolite esse parvulis sed estote parvuli». Per non essere infantili nell’intelligenza della realtà bisogna essere bambini. Se si è bambini, si è intelligenti anche nel giudizio della realtà. Per non essere infantili bisogna essere bambini, perché il bambino dice “pane al pane e vino al vino”. Il bambino, se vede una cosa, dice: questa cosa è così. Proprio per essere intelligenti realmente bisogna essere bambini.

E allora vi leggo questo brano di santa Bernadette. Siamo nel 1870, durante la guerra della Prussia contro la Francia (guerra che è stata interessante anche per l’Italia in quanto il Regno piemontese ha conquistato Roma proprio perché Napoleone III era impegnato nella guerra di Prussia, quindi non ha potuto difendere il Papa). I prussiani erano protestanti mentre la Francia era cattolica. Quindi è come se adesso, in un certo immaginario, i prussiani fossero musulmani che stanno arrivando alle porte di Nevers. E allora un funzionario dello Stato francese va nel convento di Nevers, chiede di poter parlare con Bernadette e le domanda: «Alla grotta di Lourdes, o in seguito, avete avuto qualche rivelazione relativa all’avvenire e ai destini della Francia? La Vergine non vi ha per caso incaricata di trasmettere avvertimenti o minacce per la Francia?». E Bernadette dice: «No». «I prussiani sono alle porte: non vi mettono paura?». E Bernadette risponde: «No». «Dunque non c’è nulla da temere?» [nell’immaginario di allora i prussiani erano un altro popolo, un’altra religione, che stava arrivando e sottomettendo la Francia cattolica]. E Bernadette risponde: «Io non temo che i cattivi cattolici». «Non temete nient’altro?». «No, nulla». Quando ho letto questa cosa… se si è bambini, si è intelligenti. Quando si è bambini, quando si sta alla fede dei semplici, si diventa intelligenti del mondo. Bernadette anticipa quello che in maniera, secondo me, unica da un certo punto di vista (anche se quando l’ha detto citava sant’Agostino), il Papa ha detto nel suo viaggio a Fatima, ossia che la persecuzione della Chiesa viene, innanzitutto, dall’interno. Innanzitutto, la persecuzione della Chiesa non viene dall’esterno ma dall’interno.

Sant’Agostino, quando commenta le persecuzioni della Chiesa e quando dice (quel brano che il Concilio Vaticano II cita nella Lumen gentium) che la Chiesa cammina «tra le consolazioni di Dio e le persecuzioni del mondo», spiega che il mondo che perseguita la Chiesa è innanzitutto quello che sta all’interno della Chiesa. Il mondo che perseguita la Chiesa sono innanzitutto i nostri poveri peccati. Le stesse parole il Papa le ha dette nel pellegrinaggio a Fatima.

 

E poi santa Teresina. Di santa Teresina leggo alcune tra le ultime parole che ha scritto prima della morte, a ventiquattro anni: «Alle anime semplici non servono mezzi complicati: poiché io sono tra queste, un mattino durante il ringraziamento [alla comunione], Gesù mi ha dato un mezzo semplice per compiere la mia missione. Mi ha fatto capire questa parola del Cantico: “Attirami, noi correremo all’effluvio dei tuoi profumi”. O Gesù, dunque non è nemmeno necessario dire: Attirando me, attira le anime che amo. Questa semplice parola: “Attirami”, basta». È diventata patrona delle missioni per questo! Ha detto solo «attirami». Viviamo in un mondo che è diventato piccolo e questa è una delle cose più belle del mondo in cui viviamo. Basta che ci sia qualcuno che è attirato che se ne accorge tutto il mondo. Basta qualcuno che è attirato dal piacere di correre dietro a Gesù, che è attirato da questo piacere… perché si è attirati solo dal piacere. L’attrattiva della grazia non può che essere il piacere di essere attirati. Basta che qualcuno sia attirato da questo piacere che se ne accorge il mondo. E magari se ne accorgono prima quelli che sono più lontani. Anche questo è così importante! E magari non se ne accorgono quelli che sono vicini. Basta vedere la vita di alcuni santi, come santa Bernadette o santa Teresina o, magari, la vita di santa Margherita Maria Alacoque  (dove è ancora più evidente), che nel convento o nel monastero in cui vivevano le loro sorelle non è che si accorgessero molto della semplicità con cui venivano amate dal Signore. Magari se ne accorgevano di più persone lontane che, incontrandole, intuivano che cos’era l’essere amati da Gesù.

Continua santa Teresina: «Madre mia [era la priora del monastero e una delle sue sorelle carnali], credo che sia necessario darle ancora qualche spiegazione sul brano del Cantico dei Cantici: “Attirami, noi correremo” [dietro al tuo profumo] perché quello che ho voluto dire mi sembra poco comprensibile». E poi scrive: «‟Nessuno può venire a me”, ha detto Gesù, “se non lo attira il Padre mio che mi ha mandato”». Sant’Agostino riassume tutta la vicenda cristiana con queste parole: «Nemo venit nisi tractus / Nessuno può venire se non è attirato». Nessuno può venire a Gesù se non per il piacere di essere attirato. «Poi», dice santa Teresina, «con parole sublimi, e spesso senza nemmeno usare questo mezzo così familiare al popolo [che sono le parabole], ci insegna che basta bussare perché ci venga aperto, basta cercare per trovare e tendere umilmente la mano per ricevere quello che chiediamo… Dice inoltre che tutto quello che chiederemo al Padre suo nel suo nome Egli lo concederà. Certo è per questo che lo Spirito Santo, prima della nascita di Gesù, dettò questa preghiera profetica: Attirami, noi correremo. Cos’è dunque chiedere di essere attirati, se non chiedere di unirsi in modo intimo all’oggetto che avvince il cuore? […]. Madre amata, ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore, di unirmi così strettamente a Lui, che Egli viva e agisca in me […]. Quanto più dirò: Attirami, tanto più le anime che si avvicineranno a me […] e correranno rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato […]; certo, come santa Maddalena resta ai piedi di Gesù, ascolta la sua parola dolce e infuocata. Sembrando non dar niente, dà molto di più di Marta che si agita per molte cose e vorrebbe che la sorella l’imitasse».

E poi c’è l’ultima frase che è bellissima: «Non sono i lavori di Marta che Gesù biasima: a questi lavori la sua Madre divina [la Madonna] si è umilmente sottomessa per tutta la sua vita perché doveva preparare i pasti per la Santa Famiglia. È solo l’inquietudine della sua ardente ospite che [Gesù] vorrebbe correggere». Com’è bello anche questo fatto: che dire al Signore «attirami» non esclude nulla. Si può dire «ti offro» o si può dire «attirami Gesù» mentre si lavora o mentre una mamma in famiglia sta con il suo bambino piccolo. Quando dico il salmo il venerdì sera a compieta, è uno dei salmi più pieni di angoscia però c’è dentro una frase che mi allarga sempre il cuore: «Tutto il giorno ti chiamo». E questo «ti chiamo» a me fa venire in mente quando la Madonna a Nazareth aveva preparato il pranzo o la cena per Giuseppe e per Gesù e magari Gesù piccolo stava giocando con i suoi amici davanti alla casa e la Madonna lo chiamava. La preghiera è semplicemente un chiamare Gesù. Ed è un chiamarlo ripetendo le parole dei semplici e degli umili. Per esempio, il santo Rosario. Per esempio, ripetendo cinquanta volte «prega per noi» magari il Signore dona che qualche volta questa umile ripetizione, che è quello che conta, fiorisca in dolcezza e in abbraccio del cuore.

 

Concludo con due preghiere di sant’Ambrogio. La prima in qualche modo, con il dono della santità, dice quello che lo Starets Giovanni ha detto: «Ciò che abbiamo di più caro è Cristo stesso e tutto ciò che viene da Lui». Dice Ambrogio nel De verginitate: «Omnia igitur habemus in Christo / In Cristo noi abbiamo tutto / omnia Christus est nobis / e Cristo è tutto per noi. Ognuno si avvicini a Lui. Chi è ammalato a causa dei peccati, chi è come inchiodato dalla sua concupiscenza, chi è ancora imperfetto ma desideroso di progredire con intensa preghiera, chi è già cresciuto in molte virtù. Ognuno di noi è nelle mani del Signore e Cristo è tutto per noi. Se desideri risanare le tue ferite, Egli è medico; se sei arso dalla febbre, Egli è fonte; se ti trovi oppresso dal peccato, Egli è giustizia; se hai bisogno di aiuto, Egli è forza; se hai paura della morte, Egli è vita; se desideri il paradiso, Egli è via; se fuggi le tenebre, Egli è luce; se cerchi il cibo, Egli è nutrimento. Gustate, dunque, e vedete quanto è dolce il Signore. Felice l’uomo che spera in Lui».

E poi un’altra preghiera di sant’Ambrogio. Questa la so a memoria perché tante volte la dico dopo la comunione. Sant’Ambrogio sta commentando l’ultimo versetto del salmo più lungo, il Salmo 118, che dice: «Require servum tuum […] quia mandata tua non sum oblitus / Cerca il tuo servo, […] anche se mi sono smarrito, perché non ha dimenticato i tuoi comandamenti». E sant’Ambrogio dice: «Se Tu ritardi, io mi smarrisco». È bellissimo questo! Se tu non vieni subito… Pecorella smarrita si è sempre, quando il Signore ritarda. Non è solo un passato. E poi aggiunge «Veni, Domine Iesu, ad me veni / Vieni Signore Gesù, vieni a me / quaere me / cercami [come la pecorella smarrita] / inveni me / trovami / suscipe me / prendimi in braccio / porta me / portami».

 

Così ho tentato di dire, usando le parole di alcuni santi, quello che, secondo me, ha suggerito l’immagine della compagnia dei santi, cioè degli uomini che hanno riconosciuto la verità: «Vir qui adest».

Permettetemi di concludere con questa frase di don Giussani che mi sembra riassumere quello che il Papa diceva, cioè che la Chiesa è salvata dalla fede dei semplici. Per esempio, innanzitutto la fede dei bambini. Com’è importante l’Ave Maria dei bambini! La fede dei semplici è la fede della persona che va in chiesa e si mette in fondo e magari non risponde alla messa, ma quel suo stare lì contiene, come accenna la parabola del pubblicano, una domanda di misericordia più di tante parole che anche in chiesa possiamo dire. Diceva Giussani in un articolo pubblicato su Avvenire la domenica 30 aprile dell’anno santo del Duemila (dopo aver detto che la nostra risposta alla grazia è la preghiera, è la domanda che la grazia si rinnovi, è la domanda che non ritardi la Sua grazia): «Il popolo cristiano, da secoli, è stato benedetto e confermato nell’essere proteso alla salvezza [è stato benedetto, l’iniziativa è del Signore che benedice, che dice bene di ciascuno di noi, che vuole bene a ciascuno di noi… È stato benedetto e confermato nell’essere proteso, cioè nel domandare la salvezza. Essere proteso è come il bambino che guarda senza dire niente e domanda di essere voluto bene] io credo, specialmente da una cosa: il santo Rosario». Grazie.

 

 

Nota a margine: il testo, ripreso da un video, è stato aggiustato lievemente (pochissimi interventi invero), come si usa nelle trascrizioni dal “parlato” allo scritto e come faceva lo stesso don Giacomo per le trascrizioni delle sue catechesi. D’altronde la pubblicazione non vuole avere valore documentale, ma essere un semplice spunto di preghiera.

 

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