11 Maggio 2016

La Madonna che indica la strada

di Pina Baglioni
La Madonna che indica la strada
Tempo di lettura: 5 minuti

 

«Millimetro per millimetro, riuscii a distaccare l’incollatura medioevale e vidi formarsi quei grandi occhi che tornavano alla luce… occhi che riflettevano gli ultimi bagliori del mondo antico… Di qui il turbamento di una creatura limitata e peccatrice come me, che mi reputo un modesto “otturabuchi”, al quale però è capitata un’avventura di quelle che non si ripetono nella vita. Davanti a quegli occhi che riflettono – così m’è venuto da dire – tutte le sofferenze e speranze delle generazioni passate, altri hanno disquisito. Io ho pianto».

 

È il racconto di Pico Cellini, uno dei più grandi restauratori italiani, del momento in cui si ritrovò davanti agli occhi una delle più antiche immagini della Madonna che esistono al mondo, la Vergine Odigitria, cioè “colei che indica la strada”, che poi è quel Gesù Bambino che tiene in braccio.

 

Di questa “avventura”, come la definisce Cellini, il decano dei restauratori italiani scomparso nel 2005, parla in un’intervista rilasciata nel 1990. Nell’anno santo del 1950 gli viene affidato l’incarico di restaurare un’antica icona della Vergine Maria presente nella chiesa di Santa Francesca Romana. Un’immagine «molto rimaneggiata e ridipinta lungo i secoli», ricorda Cellini. Che presentava una particolarità: «I volti della Madonna e del Bambino tendevano a staccarsi dalla tavola».

 

«Quale studioso di immagini mariane e profondamente devoto della Madonna», ricorda il restauratore, egli fu «ben felice» dell’incarico, come anche del fatto che gli fu data licenza di portare l’immagine sacra a casa. «Qui, prima di incollare l’immagine al supporto, volli verificare se era vero, come sospettavo, che la causa del distacco fosse da ricercare in uno strato sottostante di pittura diverso per natura e colore. Con infinita cura riuscii a staccare i bordi dei due volti, che stranamente apparivano isolati rispetto al resto del dipinto, e una volta sollevato quella specie di coperchio, per poco non mi prese un accidente: sotto la testa della Vergine ne emerse infatti una seconda, enorme, con due grandi occhi dallo sguardo ipnotico».

 

«Era il volto, mirabilmente intatto, di un’immagine molto più antica di quella attribuita all’inizio del XIII secolo, che traspariva sotto le grossolane ridipinture ottocentesche: per la tecnica ad encausto su tela di lino ed altre caratteristiche che non sto qui ad elencare, fui in grado di datarla addirittura al primo quarto del V secolo. Essa rispecchiava una tecnica raffinatissima e una committenza prestigiosa, quella della stessa corte imperiale di Bisanzio: era una immagine carica di arte, di fede e di storia giunta in Occidente attraverso chissà quali tumultuose vicende».

 

«Spesso mi son chiesto come mai questa Madonna produce una tale emozione, specie in chi la contempli per la prima volta. La spiegazione, forse, è in quei grandi occhi dalla pupilla dipinta in nero, colore che – secondo i canoni dell’arte ellenistica – indica il limite della conoscenza. Quello di Maria non è uno sguardo rivolto all’esterno, ma è tutto interiore: attinge l’abisso dell’inconoscibile, in cui dimora Dio, abisso che lei sola vede».

 

Dopo il ritrovamento dell’icona, il grande restauratore si recò ogni domenica nella basilica di Santa Francesca Romana per assistere alla messa, per poi raccogliersi in preghiera davanti all’immagine. E “presentare” ai fedeli convenuti quel volto della Madonna rimasto celato a tante generazioni, i cui grandi occhi avevano svelato d’incanto gli ultimi segni della bellezza antica e i tratti somatici della Vergine Maria descritti da san Luca nel suo vangelo, autore, secondo la tradizione, di  molti suoi ritratti.

 

A confermare la datazione e la provenienza dell’immagine entrò in gioco un altro mostro sacro: Margherita Guarducci, epigrafista greca di fama mondiale e accademica dei Lincei, che da lì a poco avrebbe rintracciato le reliquie di san Pietro nella necropoli vaticana.

 

In breve, la studiosa osservò come l’icona apparsa alla luce presentasse caratteristiche che si ritrovavano stranamente in un’altra famosa immagine, ritenuta perduta: quella della Madonna Odigìtria di Costantinopoli, creata nel 438-39 quale tipo ufficiale di Maria Madre di Dio, una definizione che era emersa e consegnata alla Chiesa nel Concilio di Efeso del 431.

 

Un’immagine, quella di Costantinopoli, che la tradizione attribuiva all’iconografia propria dell’evangelista Luca, e fatta realizzare in Palestina – ad encausto e su disco ligneo – da Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II. Notevole anche il fatto che le dimensioni dell’icona costantinopolitana corrispondessero a quelle romane.

 

Ma c’era di più: pare che gli imperatori dell’Occidente avessero portato a Roma, sempre nel 439, una copia su tela della Odigìtria, eseguita sull’impronta rovesciata – ottenuta per calco speculare – dell’originale. Da questo calco deriverebbe dunque l’immagine romana, che infatti vede invertita la posizione del Bambino Gesù: sul braccio destro di Maria invece che sul sinistro, come normalmente rappresentato.

 

Proseguendo le sue ricerche, la Guarducci si imbatté in una splendida ed enorme icona mariana esistente a  Montevergine, celebre santuario dell’Avellinese. L’opera, eseguita tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, raffigura la Madonna in trono col Bambino e presenta una particolarità: la testa di Maria è leggermente sporgente dal resto della tavola e inclinata verso chi osserva dal basso.

 

Esami condotti tra il ’60 e il ’61 accertarono che essa è dipinta su un disco di legno di tipo diverso dal resto della tavola, e che dal dipinto medievale traspaiono tracce di una pittura più antica. E in effetti, una tradizione risalente al ’500 vuole che questa sia l’autentica testa della famosa Odigìtria perduta, in realtà trafugata da Baldovino II, ultimo imperatore latino d’Oriente, allorché fuggì da Costantinopoli nel 1261.

 

Il volumetto La più antica icona di Maria della Guarducci documenta la singolare scoperta: «A Montevergine rimane la testa autentica della Odigìtria, se pure sotto il velo della pittura medievale; a Roma splende la medesima testa, nella copia fedele che subito ne fece, “in controparte”, un grande artista di Costantinopoli. Fra Oriente e Occidente si pone ora, quale prodigioso vincolo di pace, la più antica icona di Maria, che dell’Oriente e dell’Occidente ha ricevuto, per tanti secoli, la fervida preghiera».

 

L’antichissima immagine dell’Odigitria attualmente è esposta (e lo sarà fino a settembre prossimo) a Santa Maria Antiqua al Palatino, chiesa riaperta definitivamente nello scorso marzo dopo decenni di restauri delicati e complessi: fu questa, infatti, la prima “casa” dell’Ogiditria romana.

 

Edificata nel VI secolo tra il Foro e il Palatino, Santa Maria Antiqua fu devastata da un terremoto nel IX secolo. Irrimediabilmente ricoperta dai detriti, fu interrata. L’icona, però, si salvò dalla distruzione e fu messa in salvo. Tanta era la devozione del popolo romano per tale immagine che per custodirla fu edificata una nuova chiesa che l’ospitasse, Santa Maria Nova al Foro Romano.

 

Una venerazione che crebbe a seguito di un altro episodio: ai tempi di Onorio III un incendio distrusse completamente il tetto della basilica di Santa Maria Nova, ma l’immagine della Madonna si salvò ancora una volta.

 

Così non sorprende che fu proprio ai piedi di tale icona che, il 15 agosto 1425, santa Francesca Romana e le sue prime compagne fecero la loro oblazione al Signore. Alla morte della santa, il suo corpo fu deposto nella cripta della chiesa, che da quel momento prese anche il nome della veneratissima Francesca (come è più nota oggi), compatrona di Roma insieme a Pietro, Paolo e Filippo Neri.

 

Il 15 marzo scorso, in occasione del trasferimento dell’immagine dalla Nova all’Antiqua, molti romani hanno accompagnato con preghiere e canti il dipinto della Vergine Maria. Un’iniziativa dei padri benedettini Olivetani ai quali, dal 1352, è stata affidata la chiesa di Santa Francesca Romana. «Gli occhi grandi della Madonna rappresentata nell’icona danno un senso di pace, protezione e fiducia. La processione ha voluto ricordare quella del 590, voluta da San Gregorio Magno per chiedere di far cessare la peste», ha detto nell’occasione padre Diego Maria Rosa, l’abate generale dei benedettini.

 

Alla processione hanno partecipato parroci e rettori delle chiese che circondano i Fori Romani. Tra questi il rettore della basilica di San Teodoro, concessa nel 2004 alla Chiesa Ortodossa, di cui è titolare l’archimandrita Symeon Katsinas. Un piccolo gesto per ricordare quel legame tra cristianità d’Oriente e d’Occidente, del quale la venerata icona è prodigioso segno.

 

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