7 Maggio 2014

La Pietà

Tempo di lettura: 3 minuti

Sono un uomo ferito.
E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L’uomo che è solo con sé.

 

di Fabio Pierangeli

La sezione degli Inni del Sentimento del Tempo, il volume che segna l’approdo a Roma e nel Lazio di Ungaretti, risente, fin dal titolo, dello stupore del poeta verso l’opera di Michelangelo. Il grande artista gli ha aperto le porte della città. Non esiste altra chiave per comprenderne l’ansia barocca, il vuoto, le rovine. L’anima pagana e quella cristiana. La Pietà non è tanto quella di San Pietro, quasi fredda in un equilibrio rinascimentale, ma quella incompiuta, la Rondanini.

Ecco alcuni stralci della Nota dello stesso poeta alla sua seconda raccolta poetica, Il sentimento del tempo, 1933:

 

«Perché Roma è in quel fondo, è una città di fondo barocco. La difficoltà che avevo da principio da sormontare  era di arrivare a vedere come fosse un’unità nella città. E un grande, è Michelangelo che mi ha indicato la strada: è perché il barocco romano è nato con Michelangelo….

L’uomo di pena è l’uomo cupamente in meditazione sulla giustizia e sulla pietà. Contraddizione assoluta, dialettica dei contrari. La Giustizia tremenda del Giudizio della Sistina,  è posta in iscacco dalla Pietà scolpita nell’atto estremo stesso nel quale si afferma la Passione e la Crocifissione del Figlio…

Una città come Roma, negli anni durante i quali scrivevo Sentimento del tempo, era città dove si aveva ancora  il sentimento dell’eterno e nell’animo nemmeno oggi scompare, davanti a certi ruderi. Quando si è in presenza del Colosseo, enorme tamburo con le orbite vuote, si ha il sentimento del vuoto… Quell’orrore del vuoto si può sentirlo a Roma infinitamente di più, e nemmeno nel deserto, che in qualsiasi altra parte della terra… L’orrore del barocco proviene dall’idea insopportabile d’un corpo privo d’anima. Uno scheletro provoca l’orrore del vuoto. Quando Michelangelo rappresenta nella sua ultima opera, la Pietà Rondanini, Cristo, Cristo è un corpo disanimato, un corpo vuoto e, in quell’effetto di giustizia, Michelangelo non vede se non orrore».

Riportiamo l’Inno per intero:

 

Sono un uomo ferito.

E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L’uomo che è solo con sé.

Non ho che superbia e bontà.

E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.

Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitù di parole?

Regno sopra fantasmi.

O figlie secche,
Anima portata qua e là…

No, odio il vento e la sua voce
Di bestia immemorabile.

Dio, coloro che t’implorano
Non ti conoscono più che di nome?

M’hai discacciato dalla vita.

Mi discaccerai dalla morte?

Forse l’uomo è anche indegno di sperare.

Anche la fonte del rimorso è secca?

Il peccato che importa,
Se alla purezza non conduce più.

La carne si ricorda appena
che una volta fu forte.

E’ folle e usata, l’anima.

Dio, guarda la nostra debolezza.

Vorremmo una certezza.

Di noi nemmeno più ridi?

E compiangici dunque, crudeltà.

Non ne posso più di stare murato
Nel desiderio senza amore.

Una traccia mostraci di giustizia.

La tua legge qual è?

Fulmina le mie povere emozioni,
Liberami dall’inquietudine.

Sono stanco di urlare senza voce.

2.

Malinconiosa carne
Dove una volta pullulò la gioia,
Occhi socchiusi del risveglio stanco,
Tu vedi, anima troppo matura,
Quel che sarò, caduto nella terra?

E’ nei vivi la strada dei defunti,

Siamo noi la fiumana d’ombre,

Sono esse il grano che ci scoppia in sogno,

Loro è la lontananza che ci resta,

E loro è l’ombra che dà peso ai nomi.

La speranza d’un mucchio d’ombra
E null’altro è la nostra sorte?

E tu non saresti che un sogno, Dio?

Almeno un sogno, temerari,
Vogliamo ti somigli.

E’ parto della demenza più chiara.

Non trema in nuvole di rami
Come passeri di mattina
Al filo delle palpebre.

In noi sta e langue, piaga misteriosa.

3.

La luce che ci punge
E’ un filo sempre più sottile.

Più non abbagli tu, se non uccidi?
Dammi questa gioia suprema.

4.

L’uomo, monotono universo,
Crede allargarsi i beni
E dalle sue mani febbrili
Non escono senza fine che limiti.

Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
Non teme e non seduce
Se non il proprio grido.

Ripara il logorio alzando tombe,
E per pensarti, Eterno,
Non ha che le bestemmie.

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