Il collasso degli aiuti a Gaza: non un caso, una strategia

Le scene apocalittiche dell’assalto agli aiuti umanitari distribuiti a Gaza, nell’area di Tal as-Sultan, “non è stata una tragedia, ma una rivelazione, il disvelamento definitivo e violento dell’illusione che gli aiuti umanitari nascano per servire l’umanità piuttosto che l’impero”. Così Ahmad Ibsais in un articolo di al Jazeera dal titolo: “Il sistema di aiuti di Gaza non è difettoso. Funziona esattamente come programmato” (volevo tagliare, ma è impossibile: la nota è di una intelligenza inusuale).
“Presentato da Israele e Stati Uniti come un modello di dignità e neutralità – continua Ibsais – il nuovo centro di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation si è disintegrato nel caos poche ore dopo l’apertura. Ma non è stato un caso. Era il logico punto di arrivo di un sistema progettato non per nutrire gli affamati, ma per controllarli e contenerli”.
“Mentre la gente affamata di Gaza – costretta ad aspettare per ore sotto il sole cocente, ingabbiata in corridoi stretti tra reti metalliche per ricevere una misera scatoletta di cibo – iniziava ad avanzare in preda alla disperazione, è scoppiato il caos. Il personale della sicurezza – impiegato da un’agenzia sostenuta dagli Stati Uniti – ha aperto il fuoco nel tentativo di impedire un assalto precipitoso [agli aiuti]. Poco dopo, sono arrivati gli elicotteri israeliani per evacuare il personale americano e hanno iniziato a sparare colpi di avvertimento verso la folla. E il tanto reclamizzato centro di raccolta di aiuti è completamente collassato”.
“Con questa iniziativa, la Gaza Humanitarian Foundation aveva promesso qualcosa di rivoluzionario: aiuti liberi dalla corruzione di Hamas, dalla burocrazia delle Nazioni Unite e dal caos della società civile palestinese. Invece, ha prodotto la più alta sintesi dell’umanitarismo coloniale: aiuti come strumento di controllo, disumanizzazione e umiliazione, erogati da mercenari armati sotto l’occhio vigile dell’esercito occupante”.
“Il problema del fallimento dell’iniziativa della Gaza Humanitarian Foundation non è stato solo il modo disumanizzante e pericoloso con cui ha tentato di consegnare gli aiuti sotto la minaccia delle armi. Gli aiuti stessi erano umilianti sia per qualità che per quantità”.
“Ciò che veniva dato alle persone non era sufficiente a sopravvivere, figuriamoci per ripristinare un minimo senso di umana dignità. Le scatolette erogate contenevano appena le calorie necessarie per prevenire una morte immediata: una crudeltà calcolata, studiata per mantenere le persone in vita con lo stomaco pieno per un quarto, mentre i loro corpi continuano lentamente a fiaccarsi. Nessuna verdura. Nessun seme da piantare. Nessun attrezzo per ricostruire. Solo cibo trattato, progettato per mantenere la popolazione in una situazione di emergenza permanente, per sempre dipendente dalla pietà dei loro carnefici”.
“Le foto del centro di distribuzione che mostrano esseri umani disperati, sfiniti dalla fame, dalle malattie e da una guerra senza tregua, stipati in corsie delimitate da recinzioni metalliche come fossero bestiame, in attesa di scarti alimentari mentre i loro occhi fissano le canne dei fucili, richiamano alla mente le immagini ben note di sofferenza e morte dei campi di concentramento del secolo scorso”.
“La somiglianza non è casuale. I ‘centri di distribuzione degli aiuti’ di Gaza sono i campi di concentramento dei nostri tempi, progettati, come i loro precursori europei, per gestire, controllare e contenere le popolazioni indesiderate piuttosto che per aiutarle a sopravvivere”.
“Jake Wood, direttore esecutivo della Fondazione, si è dimesso pochi giorni prima del fallimento dell’operazione Tal as-Sultan, affermando nella lettera di dimissioni di non credere più che la fondazione potesse aderire ‘ai principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza’”.
“Un esempio eclatante di eufemismo burocratico. Ciò che intendeva dire – e che non poteva dire esplicitamente – era che tutta l’operazione era una menzogna. Un’iniziativa volta ad aiutare una popolazione occupata e assediata non può essere neutrale quando si coordina con l’esercito occupante”.
“Non può essere imparziale quando esclude la popolazione occupata dal processo decisionale. Non può essere indipendente quando la sua sicurezza dipende proprio dalle forze armate che hanno causato la carestia che starebbero cercando di affrontare”.
“L’umiliazione andata in scena martedì è stata preparata da mesi. Dei 91 tentativi delle Nazioni Unite di consegnare aiuti alla Striscia di Gaza settentrionale assediata tra il 6 ottobre e il 25 novembre, 82 sono stati respinti e 9 sono stati ostacolati. Michael Fakhri, relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto alimentare, ha accusato Israele di aver condotto una ‘campagna per portare alla fame’ i palestinesi di Gaza già nel settembre 2024”.
“Un rapporto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha avvertito che carestia e malattie stavano ‘uccidendo più persone di bombe e proiettili’, descrivendo in tal modo la crisi causata dalla fame come la più rapida e deliberata della storia moderna. Tra il 19 e il 23 maggio, a Gaza sono entrati solo 107 camion di aiuti dopo oltre tre mesi di blocco”.
“Durante il cessate il fuoco temporaneo erano necessari dai 500 ai 600 camion al giorno per soddisfare i bisogni umanitari essenziali. In base a questa misura, sarebbero necessari oltre 40.000 camion per affrontare in modo significativo la crisi. Almeno 300 persone, tra cui molti bambini, sono già morte per fame”.
“Ma la degradazione degli ‘aiuti’ e la trasformazione ‘dell’umanitarismo’ in un meccanismo di controllo non sono iniziate il 7 ottobre. I palestinesi vivono questa menzogna degli ‘aiuti’ da 76 anni, da quando la Nakba li ha trasformati da un popolo che si nutriva da solo in un popolo costretto a mendicare le briciole”.
“Prima del 1948, la Palestina esportava agrumi in tutta Europa, produceva sapone che veniva commerciato in tutta la regione e vetro che rifletteva il sole del Mediterraneo. I palestinesi non erano ricchi, ma erano autosufficienti. Coltivavano il proprio cibo, costruivano le proprie case, educavano i propri figli”.
“La Nakba non si limitò a sfollare 750.000 palestinesi, ma innescò anche una trasformazione dall’autosufficienza alla dipendenza. Nel 1950, gli ex contadini facevano la fila per le razioni dell’UNRWA e i loro uliveti nutrivano i figli di altri. Non uno sfortunato effetto collaterale della guerra, ma una strategia deliberata: indebolire la capacità di indipendenza dei palestinesi e sostituirla con un bisogno permanente di beneficenza. E la beneficenza, a differenza dei diritti, può essere revocata. La beneficenza, a differenza della giustizia, è soggetta a condizioni”.
“Gli Stati Uniti, il principale donatore dell’UNRWA, hanno fornito in parallelo la maggior parte delle armi che hanno distrutto Gaza. Questa non è una contraddizione: è la logica dell’umanitarismo coloniale. Finanziare la violenza che crea il bisogno, poi finanziare gli aiuti che ne gestiscono le conseguenze. Mantenere le persone in vita, ma non permettere loro di vivere. Offrire beneficenza, ma mai giustizia. Fornire aiuti, mai libertà”.
“La Gaza Humanitarian Foundation – e il tragico spettacolo che ha creato martedì – rappresenta la perfezione di questo sistema di umanitarismo coloniale. Aiuti consegnati da appaltatori privati, coordinati con le forze di occupazione, distribuiti in zone militarizzate progettate per aggirare ogni istituzione che i palestinesi hanno costruito per se stessi. Un umanitarismo come forma di contro-insurrezione, beneficenza come controllo coloniale – e quando la sua oscena operazione è prevedibilmente fallita, i palestinesi sono stati incolpati della loro disperazione”.
“I palestinesi sanno da tempo che nessuna iniziativa umanitaria sostenuta da Israele o dagli Stati Uniti li può aiutare davvero. Sanno che una vita dignitosa non può essere sostenuta con pacchi alimentari distribuiti in strutture simili a campi di concentramento. Karamah – la parola araba che significa dignità e che ricomprende concetti come onore, rispetto e capacità di agire – non può essere lanciata via aerea o distribuita ai checkpoint dove le persone aspettano in corridoi cinti da reti metalliche come fossero bestie”.
“I palestinesi hanno la Karamah: essa vive nel loro fermo rifiuto di scomparire, nella loro ostinazione a restare umani nonostante tutti gli sforzi per ridurli a meri destinatari di una carità destinata a mantenerli a malapena in vita. Ciò di cui hanno bisogno è un vero aiuto umanitario, un aiuto che fornisca non solo calorie, ma anche una possibilità di futuro”.
“Un vero aiuto umanitario smantellerebbe l’assedio, non ne gestirebbe le conseguenze. Perseguirebbe i criminali di guerra, non darebbe alle loro vittime solo il necessario per morire lentamente. Restituirebbe la terra ai palestinesi, non cercherebbe di compensarne il furto con scatole di cibo trattato distribuite in recinti”.
“Finché la comunità internazionale non comprenderà questa semplice verità, Israele e i suoi alleati continueranno a spacciare strumenti di dominio per sollievo. E continueremo ad assistere a scene tragiche come quella di ieri a Rafah, per gli anni a venire”.
“Ciò che è accaduto a Rafah non è stato un fallimento degli aiuti. È stato il successo di un sistema progettato per disumanizzare, controllare e cancellare. I palestinesi non hanno bisogno di lenitivi elargiti dalle stesse mani che brandiscono le armi. Hanno bisogno di giustizia. Hanno bisogno di libertà. Hanno bisogno che il mondo smetta di scambiare la macchina dell’oppressione per aiuti umanitari e inizi a considerare la liberazione dei palestinesi come l’unica via verso la dignità, la pace e la vita”.