23 Ottobre 2018

Erdogan, Khashoggi e la campagna contro l'Iran

Erdogan, Khashoggi e la campagna contro l'Iran
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E venne il giorno: Recep Erdogan, come preannunciato, ha rilasciato dichiarazioni ufficiali sul caso Khashoggi, il giornalista del Washington Post ucciso nel consolato dell’Arabia Saudita di Istanbul.

Khashoggi: le accuse di Erdogan

Un giorno atteso e temuto da quanti stanno cercando una via d’uscita al cul de sac nel quale si è infilato il principe ereditario Mohamed bin Salman (Mbs), accusato di essere il mandante dell’omicidio del dissidente.

Erdogan, all’esito dell’inchiesta preliminare condotta dalla magistratura turca, è andato giù duro: l’assassinio di Khashoggi è stato “premeditato” ed è stato un “omicidio politico“. Quindi la squadra di sauditi inviata a Istanbul per intercettarlo avrebbe avuto un mandato in tal senso.

Ricostruzione che contrasta con le dichiarazioni dei sauditi che, dopo aver smentito il decesso, avevano finito per ammetterlo, accreditando la tesi che il cronista sarebbe morto accidentalmente, nel corso di una colluttazione.

Erdogan ha detto di aver prove inconfutabili su quanto afferma. Il fatto che ancora non le abbia mostrate, per alcuni, dimostra che non le ha. Appiglio precario: non sta al presidente di uno Stato mostrare registrazioni e filmati, compito di altri.

Ma è evidente che il presidente turco sta giocando una partita tutta sua. E nascondere le carte fa parte del gioco.

Tanto che ha teso la mano al re saudita Salman, chiedendogli di cooperare. Un modo per allacciare rapporti con una figura e uno Stato a lui avversi.

Di certo ha fatto sobbalzare più di una cancelleria un suo cenno a persone provenienti “da Paesi diversi dall’Arabia Saudita che potrebbero essere  coinvolti nel macabro omicidio” (vedi Anadolu).

Lo scontro che dilania gli Usa

Non sappiamo a quali Paesi alluda, ma certo deve trattarsi di alleati di Riad dotati di mezzi che essa non possiede, altrimenti non vi avrebbe fatto ricorso.

Negli Stati Uniti, i più interessati al caso dati i rapporti con Riad, c’è panico. Tanto che, dopo il segretario di Stato Mike Pompeo, oggi si è affrettata ad andare a Istanbul anche la direttrice della Cia Gina Haspel.

Alcuni ambiti Usa stanno  tentando di difendere il principe ereditario. Oggi ci prova l’ex Segretario di Stato James Baker III sul New York Times, ricordando che gli Usa hanno il dovere di contrastare il dispregio dei diritti umani, ma anche di tener presente gli “interessi della nazione”.

Per inciso, egli oggi lavora per uno studio legale che rappresenta l’Aramco, compagnia petrolifera di Stato dell’Arabia Saudita, come si legge nella (perfida?) scheda biografica del NYT.

Allo stesso tempo, tanti democratici e repubblicani sostengono il Washington Post, che sta conducendo una campagna a tambur battente, a differenza del liberal New York Times, perché sia resa giustizia al suo giornalista.

Tanta la confusione, che imperversa anche in Israele, dove le ragioni della verità si scontrano col fatto che in MbS Tel Aviv ha trovato il primo leader arabo con cui stabilire rapporti ufficiali.

Una confusione alimentata da rivelazioni variegate, tutte ancora da verificare.

Erdogan, a quanto pare, vuol giocare fino in fondo. Conseguenza di tale determinazione un nuovo riavvicinamento con Putin, che finora è rimasto a guardare. Gli serve l’appoggio russo per far fronte alle pressioni Usa.

Di oggi l’annuncio, tempismo non casuale, che a margine dell’incontro sulla Siria fissato a Istanbul per il 27 ottobre (al quale parteciperanno la Merkel e Macron) si terrà un bilaterale Erdogan – Putin.

Significativo, in altro senso, un titolo di al Monitor: l’omicidio Khashoggi ha minato alla base “la campagna di Trump contro l’Iran”.

Considerazione basata sul ruolo a cui è assurto in tale campagna il piccolo principe saudita. Questa la chiave di volta per capire il peso e la portata di questa orribile pagina di cronaca nera.

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