Gaza: il nodo del disarmo di Hamas offre spazi per sabotare la tregua
Tempo di lettura: 4 minutiLa tregua a Gaza tiene, nonostante siano iniziate le operazioni per farla collassare. A iniziare dalle insistenze sulla restituzione dei corpi degli ostaggi defunti, legittime per quanto riguarda i parenti, pretestuose per quanto riguarda le autorità israeliane, che non si rassegnano a deporre le armi come testimonia anche l’assassinio di una decina di palestinesi dopo il cessate il fuoco.
Non sappiamo se Hamas quando ha assicurato di poter restituire tutti i corpi degli ostaggi defunti fosse cosciente della difficoltà di reperirli tra le rovine di Gaza. Resta che qualcuno dovrebbe chiarire che la non piena ottemperenza a tale promessa, per oggettiva impossibilità, non può in alcun modo legittimare la ripresa del genocidio. L’opinione pubblica internazionale non potrà mai accettarlo.
Altra e più grave criticità, il disarmo di Hamas, con Netanyahu che ieri ha minacciato l’inferno se non provvederà. Una dichiarazione, di fatto, contro Trump, che aveva affermato di aver dato il placet ad Hamas per esercitare funzioni di polizia, incarico che non si può svolgere disarmati.
Tanto che il tycoon, evidentemente incalzato dalle parole del premier israeliano, ha chiarito che Hamas provvederà o l’America userà la forza. Di fatto, però, tutto resta come prima, dal momento che non ha chiarito né quando né come avverrà, restando per ora valido quanto promesso dalla milizia, disposta a cedere le armi all’autorità tecnocratica palestinese che dovrebbe prendere il controllo della Striscia.
Sul punto, cioè, Trump non ha fatto marcia indietro, ma la rincorsa a sottoscrivere le richieste di Netanyahu non rassicura. Potrebbe significare, infatti, che i giorni di gloria della knesset si siano già offuscati e si sia tornati a quelli della sudditanza, con il tycoon costretto ad allinearsi più o meno giocoforza alle pressioni dal suo alleato-padrone.
Né rassicura il balletto sull’apertura o meno del valico di Rafah, con conseguente restrizione degli aiuti diretti agli stremati palestinesi, in violazione degli accordi. Né, soprattutto, che i partiti dell’ultradestra siano rimasti al governo nonostante rigettino il cessate il fuoco.
Ciò vuol dire anzitutto che essi sperano e lavorano per un ritorno di fiamma, ma soprattutto che Netanyahu, che poteva scaricarli imbarcando al governo un partito di opposizione, vuole ancora usarli allo scopo. Tanto che è vero che Smotrich continua nelle sue minacce, dichiarando che a Gaza sorgeranno insediamenti israeliani.
Dichiarazioni tese non solo a tenere aperta l’opzione genocidio, ma anche a seminare dubbi nella parte avversa, indurla a non fidarsi delle rassicurazioni Usa, in particolare sul disarmo, punto nevralgico degli accordi. Più ruggiranno le minacce israeliane più Hamas sarà diffidente ad accogliere piani in tal senso.
A seminare ulteriori dubbi sul punto tra le fila di Hamas, l’imperversare nella Striscia di bande armate sostenute da Israele, sulle prime delle quali Avigdor Liberman, leader di Israel Beitenu, disse che erano affiliate all’Isis, connotazione che la dice lunga sulla loro natura.
Una di queste ha assassinato il giornalista Saleh Aljafarawi subito dopo il cessate il fuoco mentre, felice, si prodigava ad annunciare la svolta ai residenti. Aljafarawi si aggiunge alla lunga lista dei cronisti assassinati in questo massacro. Una morte annunciata: probabile che il suo omicidio sia dovuto al fatto che aveva documentato come e più di altri gli orrori di Gaza, “cumulando 10 milioni di follower” e attirandosi, come altri, le minacce dell’esercito israeliano.
Lo racconta la cronista Eman Murtaja su al Jazeera, affermando che il suo assassinio mira a intimidire i giornalisti di Gaza perché comprendano che, nonostante la tregua, il loro lavoro resta a rischio.
Nel raccontare la storia di Aljafarawi, la cronista palestinese spiega che “ora la minaccia proviene dalle milizie che l’occupazione ha organizzato per continuare a combattere la popolazione palestinese dopo il cessate il fuoco”.
Fonte di parte, ma gli scontri tra queste bande e Hamas sono documentate, nonostante la dichiarazione del ministro degli interni di Hamas – strano, ma esiste – il quale ha annunciato che ai membri di tali bande è stato accordato del tempo per pentirsi. Come documentate sono le esecuzioni dei collaborazionisti di Israele, un redde rationem, più o meno brutale, che si ripete in tutte le guerre.
Un caos nel quale si continua a sparare, dunque, situazione che rende più arduo ad Hamas la consegna delle armi e offre a Netanyahu spazi di manovra per sabotare ancora una volta la tregua (sul tema, l’editoriale di Haaretz). Una possibilità che non sfugge a nessuno, evidenziata dal presidente turco Erdogan, il quale ha dichiarato che, “se il genocidio ricomincia, ci saranno gravi conseguenze”.
Secondo fonti di Haaretz sarebbero iniziati i colloqui della seconda fase del cessate il fuoco, annunciata da Trump al vertice di Sharm el-Sheikh – dove si è siglata la cosiddetta pace – nei quali si dovrebbe delineare il futuro di Gaza. Notizia poi smentita da un alto funzionario vicino a Netanyahu, il quale ha aggiunto che la “guerra non è finita“…
Al netto del sabotaggio in corso, secondo il report di Haaretz gli americani starebbero spingendo perché sia l’Autorità nazionale palestinese ad amministrare la Striscia, in netta contraddizione con i desiderata di Netanyahu che l’ha ripetutamente escluso.
Sul punto, riferiamo un avvenimento secondario, ma anche no, a margine del summit di Sharm el-sheikh, raccontato dal Nyt: mentre Trump e il presidente palestinese Mahamoud Abbas “posavano per la telecamera al termine di una conversazione a bassa voce, Trump ha preso la mano di Abbas, accarezzandola due volte mentre il leader palestinese sorrideva. Trump ha poi fatto il segno del pollice in su accompagnandolo con un sorriso smagliante”.
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