Gaza: l'ingegneria della fame
Tempo di lettura: 4 minutiDopo l’entrata in vigore della tregua, 10 ottobre, Israele ha violato il cessate il fuoco almeno “282 volte”, uccidendo 242 persone e ferendone altre 622. Né si arrestano le violenze in Cisgiordania, dove gli squadristi israeliani attaccano impunemente i civili che cercano di raccogliere le olive. Ieri, per la prima volta, gli Stati Uniti hanno rotto il silenzio sulle violenze dei coloni: il Capo del Dipartimento di Stato Marco Rubio ha dichiarato che potrebbero mettere in discussione il cessate il fuoco.
Una querula, quanto tragicamente tardiva, protesta pigolata, che in Israele è stata accolta con l’ovvia indifferenza del caso, come altrettanta indifferenza gli States dimostrano per le violazioni della tregua a Gaza, sulle quali non hanno finora detto nulla.
A Tel Aviv tutto è permesso purché il cosiddetto cessate il fuoco non sia messo in discussione seriamente, ne va dell’immagine di Trump e dei rapporti tra Stati Uniti e Paesi arabi.
E, a quanto pare, i diuturni bombardamenti su Gaza e le incursioni in Cisgiordania non hanno raggiunto questo livello critico. Ciò solo e soltanto perché Hamas, nonostante tutto, continua a ottemperare agli accordi senza reagire, che è quello che vorrebbe Tel Aviv per riprendere le ostilità in grande stile, come chiedono i messianici al governo e come vorrebbe Netanyahu, che morde il freno.
Insomma, il calcolo statunitense è tutto fondato sulla capacità di sopportazione di Hamas e, soprattutto, del popolo palestinese, mentre le pressioni su Israele, che pure sono esercitate, si limitano a un indulgente consiglio a non esagerare (cioè a non tornare ai ritmi precedenti alla cosiddetta tregua, che hanno visto in media cento morti al giorno).
Tutto ciò mentre ai gazawi continuano a essere negati beni essenziali per la sopravvivenza, con la fame che ancora attanaglia la Striscia, ma anche l’indispensabile acqua, ormai avvelenata da scorie e liquami.
Proprio sulla fame che ha imperversato e imperversa a Gaza, un documentato studio pubblicato su Springer Nature, una casa editrice accademica anglo-tedesca, dal titolo “l’ingegneria della fame a Gaza“.
Nell’abstract della pubblicazione si riferisce che tale studio “dimostra che la fame a Gaza non è una conseguenza indesiderata della guerra, ma un risultato deliberatamente progettato, reso possibile da tecnologie avanzate e una pianificazione sistematica”.
Lo studio rileva che “sistemi di puntamento assistiti dall’intelligenza artificiale, attacchi di droni di precisione e sorveglianza sono stati impiegati per smantellare le infrastrutture alimentari a ogni livello, dai terreni agricoli alla pesca fino a panifici, mulini e magazzini, paralizzando l’intera filiera alimentare di Gaza”.
“Gli aiuti umanitari sono ostacolati dalla sorveglianza biometrica, dal targeting dei convogli e dai ripetuti attacchi contro organizzazioni affidabili come l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), mentre controverse fondazioni allineate allo Stato [israeliano] vengono scientemente rafforzate”.
“La distruzione di acqua, energia e altre risorse vitali ha innescato il collasso del nesso cibo-acqua-energia di Gaza, paralizzando tutti i meccanismi di sopravvivenza. Ancora più critico, il deliberato attacco e l’esecuzione di civili mentre facevano la fila per il pane o si appressavano alla distribuzione degli aiuti rivela una strategia calcolata per trasformare la fame in un’arma, trasformando la ricerca degli alimenti in un rischio letale”.
Fin qui il catalogo degli orrori, anche se parziale, che tanto ci sarebbe da aggiungere. Resta da riferire sugli sviluppi del cosiddetto cessate il fuoco a Gaza, che tale non è, che gli Usa vorrebbero stabilizzare.
A tale scopo hanno presentato un prospetto al Consiglio di Sicurezza Onu nel quale si dettagliano gli sviluppi proposti: lo stanziamento di una forza di stabilizzazione internazionale arabo-islamica, l’instaurazione di una governance tecnocratica palestinese supervisionata da un bizzarro Board of peace (composto da più o meno eminenti figure internazionali, ma a trazione Usa), oltre a prevedere il ritiro delle forze israeliane dall’area di Gaza attualmente occupata, il disarmo di Hamas e un nebuloso orizzonte per un possibile, quanto aletorio, Stato palestinese.
La bozza ha il favore di alcuni Paesi arabi, ma ha trovato ostacoli in Russia e Cina che hanno obiettato su diversi punti, tra i quali anzitutto la tempistica non ben specificata del ritiro israeliano, la necessità di coinvolgere da subito l’Autorità nazionale palestinese nell’amministrazione della Striscia che prefiguri la nascita dello Stato palestinese. Infine, si chiede di abolire il cosiddetto Board of peace, organismo peraltro davvero bizzarro il cui ruolo precipuo sembra essere solo quello di garantire affari alle imprese occidentali, arabe e israeliane che intendono investire su Gaza.
Cina e Russia possono opporre il veto alla risoluzione Usa, ma a quel punto gli States potrebbero rivolgersi alla solita coalizione di volenterosi, sempre pronta all’occorrenza, per metterlo in pratica al fuori dei vincoli e del controllo dell’Onu, come riferisce Timesofisrael che dettaglia la querelle. Possibile, ma difficile date le resistenze israeliane, un compromesso.
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