17 Ottobre 2023

L'America frena sull'attacco di terra a Gaza

Biden in Israele mentre l’America frena sull’attacco di terra a Gaza. Sarebbe un disastro per la sua strategia internazionale e per Israele stessa, come scrive Thomas Friedman sul New York Times.
L'america frena. Biden con Netanyahu
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Biden è andato in Israele, come richiesto a gran voce da Netanyahu, che in tal modo ricuce lo strappo con il presidente americano che ha fatto di tutto per defenestrarlo (prima vittoria politica di Bibi, che questa crisi ha momentaneamente resuscitato).

L’attacco di terra ritardato

Allo stesso tempo, Israele ha ritardato l’attacco di terra adducendo motivi metereologici. In realtà, come riferisce il Jerusalem post: uno dei fattori del posticipo “è stata la crescente preoccupazione che Hezbollah stia aspettando il momento in cui la maggior parte delle forze di terra dell’IDF sarà impegnato a Gaza per aprire completamente il fronte con l’IDF [Israel defence force] a Nord”.

Plausibile che il ritardo sia dovuto alla necessità di attendere l’arrivo del secondo gruppo di attacco della marina USA; nei prossimi giorni, infatti, la portaerei Dwight Eisenhower si unirà alla Gerald Ford, già presente al largo della Striscia, e soprattutto del Libano.

La flotta USA, che comprende incrociatori e sommergibili, dovrebbe fungere da deterrente per Hezbollah, ma non è detto che riesca nell’intento, anzi potrebbe fungere da catalizzatore per il coinvolgimento americano nel conflitto, dal momento che Hezbollah sembra avere mezzi per affondare i navigli americani.

Al di là, la dilazione dell’attacco di terra serve a Israele per mettere a punto una strategia, che a oggi sembra ancora fumosa a parte la prospettiva di eliminare Hamas.

Haaretz: l’America non vuole essere coinvolta

Ma serve soprattutto all’amministrazione Biden per tentare di porre un freno all’operazione di terra. Come scrive Alon Pinkas su Haaretz: “Due ipotesi errate hanno preso piede in Israele negli ultimi giorni: in primo luogo, che gli americani stiano effettivamente prendendo in considerazione un intervento militare nel caso in cui l’Iran inasprisca l’attuale conflitto. In secondo luogo, che gli americani sosterranno Israele incondizionatamente e ogni escalation israeliana sarà accettata, anche se con difficoltà”.

Immaginare che “gli Stati Uniti siano propensi a farsi coinvolgere” in guerra, continua Pinkas, “è però pericolosamente fuorviante. Gli americani vogliono scoraggiare l’escalation, non essere complici di un altro conflitto in Medio Oriente né essere trascinati in una guerra. L’attenzione dei prossimi giorni sarà tutta sul tema dell’escalation, che può essere di due tipi: verticale e orizzontale”.

“L’escalation verticale riguarda l’intensità, la potenza di fuoco e la portata della rappresaglia israeliana a Gaza e se implicherà un’operazione di terrae, soprattutto, su quale scala. Gli Stati Uniti giustificano un’importante risposta israeliana […] ma mettono in guardia sulle conseguenze di una crisi umanitaria e sulle insidie ​​di un’operazione di terra prolungata”. Inoltre, non vogliono affatto un’escalation orizzontale, cioè l’allargamento del conflitto.

Ma tale allargamento bussa alle porte, con Hezbollah impegnato in scaramucce di confine con l’esercito israeliano e il mondo islamico in ebollizione. Così, probabilmente, quello su cui si sta lavorando sottotraccia è un’operazione limitata che possa però essere accettata da Tel Aviv. Ed è probabilmente su tale prospettiva che si sta lavorando su tutti i tavoli interessati e interessanti, dai Paesi arabi alla Cina alla Russia (l’Europa è fuori, conta nulla).

Così andiamo al New York Times, media che rappresenta l’establishment USA, in questi giorni affollato di articoli dal taglio moderato (a differenza dei media nostrani, più realisti del re, che appaiono per lo più alquanto isterici).

Friedman e l’attacco di terra a Gaza

Interessante, in particolare, un articolo del guru Thomas Friedman, secondo il quale voler eliminare “una volta per tutte” la minaccia di Hamas con una guerra di terra alzo zero, non solo non andrà in porto, ma sarebbe disastrosa per gli Usa e per la stessa Israele.

Così Friedman: “È una guerra che potrebbe intrappolare Israele a Gaza, trascinare gli Stati Uniti in un’altra guerra in Medio Oriente e minare tre dei più importanti interessi di politica estera americana del momento: aiutare l’Ucraina a liberarsi dalla Russia per unirsi all’Occidente, contenere la Cina e formare un blocco filo-americano che comprende Egitto, Israele, paesi arabi moderati e Arabia Saudita, che dovrebbero controbilanciare l’Iran”.

“[…] Se Israele entrasse a Gaza adesso, farebbe saltare gli accordi di Abraham, destabilizzerebbe ulteriormente due dei più importanti alleati dell’America (Egitto e Giordania) e renderebbe impossibile la normalizzazione con l’Arabia Saudita: enormi battute d’arresto strategiche. Ciò consentirà inoltre ad Hamas di infiammare davvero la Cisgiordania e di scatenare una guerra tra coloni ebrei e palestinesi. Nel complesso, ciò favorirebbe la strategia dell’Iran di risucchiare Israele in un’eccessiva estensione imperiale”.

Ovviamente, lo scritto di Friedman delinea prospettive proprie degli Stati Uniti ed è intriso della retorica e delle narrazioni che le alimentano, ma è utile a capire perché la leadership USA stia cercando di frenare.

Per Friedman, peraltro, la guerra a Gaza non eliminerebbe Hamas, perché risorgerebbe dalle ceneri fuori dalla Striscia trasformandosi in un movimento apolide, un po’ com’è avvenuto con il terrorismo internazionale nel post 11 settembre. Si tratterebbe, quindi, di attuare operazioni chirurgiche affiancate a politiche volte a eliminare la forza attrattiva di Hamas. Una ricetta di corto respiro perché manca lo Stato palestinese e tanto altro, ma ci limitiamo a riportare le sue idee.

Da Sabra e Chatila al massacro di Hamas

Quel che interessa, però, è la presa di posizione forte dell’establishment USA, che però dovrà vedersela con i neocon che hanno in casa, che da tempo propugnano una crociata anti-Iran. E anche con altro e più oscuro, come indica l’entrata a gamba tesa della Segretaria del Tesoro, Janet Yellen, la quale ha dichiarato che l’America può far fronte a due guerre.

Ma, eccezioni a parte, la spinta a porre dei limiti alla guerra è presente, ma per tanti cittadini israeliani e per la loro leadership accettare che i 1.300 morti non impegnino il Paese in una risposta durissima, se non alzo zero come il livellamento di Gaza, è dura, anzi durissima. Sarebbe percepita come un’ingiustizia con la quale è impossibile convivere.

E, però, si può ricorrere alla storia, con i 3.500 morti di Sabra e Chatila, uccisi barbaramente tutti all’arma bianca in una notte di sangue dai cristiani maroniti sotto la direzione israeliana, o almeno questa è l’accusa dei palestinesi ché le indagini hanno solo accertato gravi omissioni di controllo da parte dell’esercito israeliano (sul punto di si può vedere il bellissimo Valzer con Bashir. di un autore israeliano, che racconta di come i soldati israeliani sapessero perfettamente cosa si stava consumando  mentre essi presidiavano i campi profughi).

Quelle barbare uccisioni ancora urgono nella coscienza collettiva dei palestinesi, tuttora costretti a convivere con quella che percepiscono come una delle più feroci ingiustizie della loro lunga storia di sottomissione. Non si tratta di fare paragoni più o meno indebiti, solo di evidenziare che che tale convivenza, se la necessità lo impone, è dolorosamente possibile, soprattutto in Medio oriente, dove le contraddizioni sono parte della quotidianità.