Oltre 600 scrittori francofoni e anglosassoni: a Gaza è genocidio

“Israele sta combattendo una guerra per procura per conto del Regno Unito proprio come l’Ucraina sta combattendo per conto dell’Europa occidentale contro la Russia”. Così Kemi Badenoch, leader dei Tory, in un’intervista a Sky news, che per motivare tale assurdità, che pure disvela la brutale verità che sottende il sostegno attivo dell’Occidente a Israele, ha spiegato che l’Iran è un nemico del Regno Unito e che sostiene Hamas, da cui l’interesse britannico a far proseguire la mattanza di Gaza, declinato nell’affermazione: “Non dobbiamo far nulla che sia contro l’interesse del nostro Paese”.
Da qui discende che le bombe contro gli ospedali, le tende dei rifugiati, contro i bambini, la fame, le malattie, rispondono all’interesse nazionale britannico. Si commenta da sé. Quanto all’affermazione che l’Iran sia un nemico della Gran Bretagna, la dice lunga sulla presa dei neocon sul partito conservatore britannico, mai precipitato così in basso (nessuno, tra i Tory, ha stigmatizzato le folli dichiarazioni della Badenoch).
Le dichiarazioni della Badenoch servono per attrarre la simpatia degli ambiti ebraici britannici schierati con Tel Aviv, ora che anche il premier Keir Starmer ha iniziato a fare dichiarazioni meno concilianti con Israele. Lo ha fatto con molte ambiguità, come dimostra la visita in Israele dell’inviato commerciale britannico subito dopo l’annuncio del premier del taglio dei rapporti commerciali tra i due Paesi. Grande la confusione a Londra, come annota il Guardian riportando la vicenda, con Starmer che si muove come un pesce in barile.
Non aiuta il momento, funestato dalla scampata strage alla festa per lo scudetto del Liverpool, 11 feriti di cui alcuni gravi, con un’auto impazzita che ha investito la folla, zigzagando tra di essa per investire più persone possibile (le autorità non parlano di attentato… tant’è).
Detto questo, oltre Starmer, altri leader europei hanno iniziato a chiedere a Netanyahu di fermarsi, come se davvero le loro parole possano fermare il treno lanciato in questa corsa folle per portare a compimento il “genocidio” dei palestinesi. Avendo permesso che il treno prendesse velocità, è ora più difficile fermarlo. Servono ben altro che moniti.
L’appello degli scrittori francofoni
Abbiamo usato la parola “genocidio”, come altre volte in passato, anche perché riecheggia come un maglio in un appello sottoscritto da 300 scrittori francofoni, tra cui due premi Nobel, pubblicato ieri su Liberation e rilanciato da diversi media internazionali: “Israele – vi si legge – uccide senza sosta palestinesi, a decine, ogni giorno. Tra loro ci sono i nostri colleghi: gli scrittori di Gaza. Quando non li uccide, Israele li mutila deliberatamente, li sfratta e li lascia morire di fame. Israele ha distrutto i luoghi della scrittura e della lettura: biblioteche, università, rifugi, parchi”.
“[…] Il termine ‘genocidio’ per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza non è più oggetto di dibattito per molti giuristi internazionali e organizzazioni per i diritti umani: la Federazione internazionale per i diritti umani (FIDH), Amnesty International, Medici senza frontiere, Human Rights Watch, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, i relatori delle Nazioni Unite e molti altri specialisti e storici”.
“Di fronte a questo momento storico, possiamo girare lo sguardo dall’altra parte. Oppure possiamo essere all’altezza del compito che ci attende. La storia a volte ci obbliga […] il termine ‘genocidio’ non è uno slogan. Comporta responsabilità legali, politiche e morali”.
“Non possiamo più semplicemente definirlo un ‘orrore’, mostrando una generica e vacua empatia, senza qualificare questo orrore o specificare di cosa si tratta […] oggi dobbiamo chiamarlo ‘genocidio‘”.
“Ora più che mai, chiediamo che vengano imposte sanzioni allo Stato di Israele, chiediamo un cessate il fuoco immediato, che garantisca sicurezza e giustizia per i palestinesi, il rilascio degli ostaggi israeliani, il rilascio delle migliaia di prigionieri palestinesi detenuti arbitrariamente nelle carceri israeliane e che si ponga fine immediata a questo genocidio che coinvolge tutti e ciascuno di noi”.
L’appello degli scrittori britannici e irlandesi
Dello stesso tenore l’appello sottoscritto da 380 scrittori britannici e irlandesi, pubblicato su Medium e rilanciato da altri media, nel quale si chiede “alle nostre nazioni e ai popoli del mondo di unirsi a noi per porre fine al nostro silenzio collettivo e all’inazione di fronte all’orrore”.
“L’uso delle parole ‘genocidio’ o ‘atti di genocidio’ per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza non è più oggetto di dibattito tra gli esperti legali internazionali o le organizzazioni per i diritti umani“.
“I palestinesi non sono le vittime astratte di una guerra astratta. Troppo spesso le parole sono state usate per giustificare l’ingiustificabile, negare ciò che non è negabile, difendere l’indifendibile”.
“Non si tratta solo della nostra comune umanità e di diritti umani; si tratta della nostra idoneità morale come scrittori del nostro tempo”. La missiva giunge dopo la lettera aperta di 800 giuristi del Regno Unito, tra i quali alcuni ex giudici della Corte Suprema, indirizzata a Starmer in cui si afferma: “A Gaza si sta perpetrando un genocidio o, come minimo, c’è un serio rischio che si verifichi un genocidio” (meno stringente, ma la sostanza è la stessa).
Inoltre, nella Striscia “si stanno commettendo gravi violazioni del diritto internazionale, ulteriormente minacciate da Israele” e il Regno Unito è “legalmente obbligato ad adottare tutte le misure ragionevoli in suo potere per prevenire e punire il genocidio“.
I disperati e i cosiddetti aiuti
Intanto ieri le scene apocalittiche della moltitudine di disperati che hanno preso d’assalto le aree dedicate alla consegna degli aiuti, una miseria per l’oceano di bisogno e per di più con una consegna organizzata come se si dovesse distribuire cibo a una festa patronale.
Così Nir Hasson su Haaretz: “Per settimane tutte le organizzazioni umanitarie internazionali e tutti i più importanti esperti nel campo degli aiuti umanitari hanno avvertito Israele che il suo piano di distribuire aiuti nella Striscia di Gaza attraverso grandi centri di distribuzione era destinato al fallimento” perché avrebbe “comportato un’enorme pressione su di esse”.
Tra i tanti avvertimenti, anche il fatto che il numero più che limitato dei centri di distribuzione comporta lunghi e faticosi spostamenti per i bisognosi che, se anche hanno accesso ai beni promessi, sono costretti a un ritorno ancora più faticoso, gravati dal fardello dei beni stessi; una fatica indicibile “per donne, anziani e feriti”, che peraltro comporta il rischio di essere “derubati” per via.
Inoltre, gli aiuti sono distribuiti in aperta violazione alle norme vigenti per simili situazioni, tra cui “la garanzia che gli aiuti siano neutrali, umani e indipendenti dalle forze armate che operano sul territorio e che la distribuzione sia basata sulle esigenze della popolazione e implichi la creazione di legami con le comunità locali”.
Difficile immaginare che l’intelligence israeliana o americana, che hanno informazioni e capacità di previsione ben più accurate delle organizzazioni umanitarie, non potessero prevedere il collasso del sistema. D’altronde, non è nuova l’accusa mossa da Gisha, un’organizzazione umanitaria israeliana, secondo la quale il piano degli aiuti “partecipa della politica dichiarata di Israele, con gli aiuti umanitari strumentali ai suoi obiettivi politici e militari”.