Trump-Putin: i Tomahawk e il vertice di Budapest
Tempo di lettura: 4 minutiTrump spiazza tutti e, dopo tre settimane in cui i media hanno dato per scontato che avrebbe dato i Tomahawk all’Ucraina, chiama Putin e annuncia che lo incontrerà a breve. In Ungheria, cioè nella nazione europea che più ha frenato lo slancio della leadership Ue, soggiogata da Londra, per fare del conflitto per procura ucraino una guerra continentale (nella folle illusione che rimarrebbe tale, senza cioè evolvere, com’è invece inevitabile, in una guerra termonucleare globale – sul punto, ha posto una pietra tombale l’esercitazione Usa Proud Prophet, vedi New York Times).
Zelensky, sbarcato negli Usa stamane nella convinzione che avrebbe ottenuto l’ambito regalo dal presidente americano, è rimasto sorpreso dalla mossa di Trump, annota Axios, e probabilmente se ne tornerà con le pive nel sacco. Forse avrebbe dovuto prendere più seriamente le dichiarazioni di Trump che, alcuni giorni fa, interpellato sui Tomahawk, ha risposto “ne parlerò con la Russia“. Esattamente quel che ha fatto.
Peraltro, se è vero che la querelle dei missili ha innescato ovvie reazioni a Mosca, l’inattesa telefonata di ieri segnala che i rapporti sottotraccia tra le due potenze sono stati preservati.
Prima di incontrare il presidente americano Zelensky ha incontrato i produttori di armi statunitensi, abboccamento che la dice lunga sulla natura di questo conflitto che, oltre all’obiettivo, mancato, di fiaccare le risorse russe e quello, in parte raggiunto, di distoglierla dallo scacchiere globale (vedi Gaza), ha anche quello di rafforzare l’apparato militar-industriale Usa e le forze politiche-finanziarie connesse.
L’incontro tra Putin e Trump verterà sull’Ucraina, com’è ovvio, ma non sembra ci siano ancora le condizioni per la pace a breve, anche se sperarlo è doveroso. Però in agenda, in particolare nel dialogo tra le parti che normalmente accompagna questi summit, ci sono anche altre criticità, oltre ovviamente ai rapporti commerciali tra le due potenze.
Anzitutto la questione degli accordi sul controllo degli armamenti nucleari, di cui l’ultimo rimasto in vigore è in scadenza; poi il Medio oriente, con il conflitto israelo-palestinese ancora in primo piano – con rischi di drammatizzazione ancora alti; ma anche l’Iran e la Siria e altro.
Sull’Iran pende ancora la spada di damocle di una ripresa del conflitto, dal momento che la querelle sul nucleare di Teheran resta incombente. Peraltro, ne ha parlato ampiamente anche Trump nel suo discorso alla knesset, alternando minacce ad aperture.
Alcuni giorni fa Putin ha detto di aver trasmesso a Teheran un messaggio da Israele teso a rassicurare l’antagonista regionale sul fatto che non solo non voleva un nuovo conflitto, ma era anche propenso ad accettare una soluzione diplomatica sul nucleare.
Ma Teheran, come rivelano le dichiarazioni degli esponenti del governo, non è affatto rassicurata. E ieri ha inviato a Putin un messaggio della sua più alta autorità, l’ajatollah Khamenei. Probabile che Putin ne parlerà con Trump, dal momento che le due potenze da tempo hanno un dialogo sottotraccia sull’Iran (l’incriminazione odierna dell’ex Consigliere per la sicurezza nazionale Usa John Bolton è soprattutto un segnale per Teheran, che ha in questi un simbolico quanto irriducibile nemico).
C’è poi la questione siriana, che riguarda in parte gli Stati Uniti, a cui rispondono le milizie curde dell’esercito di liberazione siriano (SDF), e in parte la Russia, che ha conservato le sue posizioni nel Paese.
Gli interessi delle due potenze devono fare i conti con gli antagonisti sul campo: la Turchia, che vuole controllare Damasco, e Israele, che vuole annettersi parte del territorio e, in alternativa o combinato disposto, vedere il Paese sprofondare in un caos frammentario.
Dopo la caduta di Assad, tutti i media mainstream assicuravano che i terroristi di al Qaeda saliti al potere grazie all’Occidente avrebbero chiuso le basi russe installate ai tempi del precedente governo.
Non è andata così e anzi, il presidente al Jolani, dopo il tour americano espletato a fine settembre presso i suoi vecchi/nuovi padrini, si è recato a Mosca. Visita che ha sorpreso i media di cui sopra, stante i suoi rapporti pregressi.
Gli è che, appunto, Damasco, cioè la Turchia, sta cercando di far fronte alle pretese israeliane – e dei neocon Usa – e gli serve un puntello. Così al Jolani ha chiesto a Putin aiuto per preservare l’integrità territoriale e rafforzare l’economia del suo Paese, criticità che Ankara può soddisfare fino a un certo punto.
Con la parte americana, invece, Damasco, e Ankara con essa, sta conducendo una snervante trattativa per integrare le milizie curde nell’esercito nazionale, altro processo volto a eliminare la frammentazione attuale, con l’SDF che controlla parte del Paese.
Infine, è probabile che Trump e Putin affrontino la questione Venezuela: la guerra voluta dal Capo di Dipartimento di Stato Marco Rubio sembra alle porte e potrebbe iniziare anche prima del summit tra i due.
Ieri, con una mossa a sorpresa, Putin ha inviato al parlamento russo, perché lo ratificasse, un accordo di partenariato strategico e cooperazione stretto con Caracas lo scorso maggio. Non prevede un’alleanza militare, ma il segnale non sarà certo sfuggito a Washington: la Russia è pronta a opporsi, nei modi e nelle forme in cui gli sarà possibile (e sono tanti), alla guerra di Rubio.
Peraltro, non sfugge l’altra mossa preventiva-proattiva di Putin, che una settimana fa ha fatto ratificare un analogo partenariato strategico, ma ampliato alla cooperazione militare, siglato con Cuba, altra ossessione di Rubio insieme il Venezuela.
Detto questo, il partito della guerra non si rassegnerà e farà di tutto per far saltare il vertice di Budapest.
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