15 Aprile 2020

Usa: la sfida tra Trump e l'incomodo Biden

Usa: la sfida tra Trump e l'incomodo Biden
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La pandemia si è insinuata  nelle presidenziali Usa come variabile nuova, cambiando scenari. Trump non è più sicuro vincitore.

La gestione della crisi sanitaria è un’incognita, la sua risposta al virus può favorirlo o perderlo, ma di certo ha perso il vantaggio vincente, cioè la forte ripresa economica registrata sotto la sua presidenza. La crisi conseguente all’epidemia l’ha incenerita.

Tutto aperto, dunque, per Trump. Ma qualcosa è cambiato anche tra i suoi antagonisti democratici. Se finora essi apparivano schiacciati sul Deep State e le élite dominanti, ora è diverso.

Trump: se telefonando…

A segnare un punto di svolta, solo per dare un cenno temporale suggestivo, la conversazione telefonica tra Trump e Joe Biden, il cui contenuto, come da intesa degli interlocutori, è rimasto segreto.

Segreto il contenuto, però è stata costruttiva, come da elogio pubblico del presidente (BBC). Una mossa del tutto irrituale, dato che in quel momento Biden era solo un candidato alla Casa Bianca, restando aperta la sfida con Bernie Sanders.

Ma, chiamandolo, è come se Trump avesse accettato, e comunicato, che era lui il suo sfidante ufficiale.

E, come se Sanders ne avesse preso atto, si è ritirato dalla corsa. Una decisione scontata, dato il distacco, si è scritto. Non è così: pur se le sue chanches di vittoria erano poche, avrebbe potuto continuare, per costringere il suo antagonista ad accettare un compromesso.

Una sfida prolungata avrebbe lacerato irrimediabilmente il già diviso partito democratico, allontanando ancora di più i cosiddetti moderati dai progressisti, perdendo così i voti di questi ultimi, dinamica che nel 2016 risultò decisiva per la vittoria di Trump.

Sanders non solo si è ritirato, ma ha anche dato un convinto appoggio a Biden, al quale si è subito unito quello di Barack Obama, che aveva invece negato analogo sostegno nel 2016 a Hillary Clinton (il suo mutismo fu interrotto da un appoggio tanto stentato da indicarne il palese distacco).

L’effimera Opa di Obama e Sanders

Dopo la sconfitta della Clinton, Obama e Sanders avevano lanciato un’Opa sul partito, dimostrato dall’ingresso al Congresso di volti nuovi ed estranei all’establishement.

Una rivincita di quegli ambiti democratici che la Clinton aveva schiacciato e che ha pesato non poco nel Congresso, anche se sulle iniziative decisive, le inchieste contro Trump sul Russiagate e l’Ucrainagate, essi sono andati a rimorchio, non potendo contrastarne la spinta, sia perché rafforzata da destra dai neocon, sia perché non potevano, loro radicali, dare l’impressione di frenare un’azione contro un presidente avverso.

Da qui la subordinazione dei progressisti e dei moderati obamiani ai liberal e all’establishement del partito, che, per forza di inerzia, ha riecheggiato anche nel dibattito per le presidenziali, pur se dominato dai radicali.

In realtà tutte le mosse dei liberal clintoniani, alla ricerca di un loro candidato, sono andate a vuoto. Le candidature di Pete Buttegieg e Amy Klobuchar, espressione di tale ambito, sono risultate solo azioni di disturbo per evitare la vittoria di Sanders, ma poco più.

A tale scopo tali ambiti hanno usato la loro influenza anche per pompare la candidata della radicale Elizabeth Warren, che come ha giustamente detto Trump, è risultata decisiva per far perdere a Sanders il voto del Supermartedì (Fox News), sconfitta che ha spianato la strada a Biden.

Ma seppure decisivi nell’azione di contrasto, tali ambiti non sono riusciti a favorire un loro candidato, come si è visto per la candidatura del plurimiliardario Michael Bloomberg, uscito con le ossa rotte.

Biden, il candidato scomodo

Così si ritrovano Biden, che speravano venisse eliminato dallo scandalo Ucrainagate, che oltre a gettare ombre su Trump, accusato falsamente di aver abusato dei suoi poteri presidenziali, ha messo sulla graticola anche Biden, dato che la vicenda era correlata alle attività più o meno debite del figlio di quest’ultimo.

Il Deep State, i liberal e i neocon speravano cioè di prendere due piccioni con una fava, eliminando l’odiato presidente e un eventuale successore democratico non gradito.

Tanto è vero che né Trump ha voluto infierire sul figlio di Biden, né Biden ha troppo cavalcato lo scandalo. E anche se ovviamente non poteva esimersi dal far dichiarazioni in proposito, giunte tardive, era chiaro che avveniva per costrizione più che per convinzione.

Così si può dire che la chiusura dello scandalo, con l’assoluzione di Trump, ha salvato ambedue i contendenti, in modi e forme diverse.

E ora, dopo il ritiro di Sanders, Biden è il candidato ufficiale del partito democratico. Una candidatura della quale gli ambiti di cui sopra non sono eccessivamente felici, tanto che da alcuni giorni sui media Usa circola l’indiscrezione che vorrebbero sostituirlo con un altro.

Né sembra giungere casuale l’accusa di molestie sessuali contro Biden da parte di una sua ex collaboratrice, che si somma ad altre, meno gravi, di approcci non appropriati verso altre collaboratrici e colleghe, mormorazioni che nell’era del metoo cadono come pietre (New York Times).

Così gli endorsement di Obama e Sanders servono anche a sostenerlo in questo momento di difficoltà. Per Sanders, in particolare, è ovvio che preferisca Biden a un candidato espressione della Clinton o di Bloomberg. Biden è un compromesso accettabile. Ma The Hill spiega che tra i radicali non tutti lo seguono. Tocca a  Sanders, ma soprattutto a Biden, convincerli.

 

 

 

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