Il rugby, tra sport e storia
Sono appena terminati i mondiali di rugby, svoltisi in Inghilterra. Hanno vinto i più forti: gli All Blacks, l’unica squadra ad aver vinto la competizione per tre volte, battendo gli australiani, rivali di sempre insieme ai Sudafricani. Per diversi motivi è stata un’edizione da record. I neozelandesi hanno sfatato la tradizione che li voleva vincitori mondiali solo sul suolo patrio (1987 e 2011). E sono gli unici ad aver vinto due mondiali consecutivi.
Sembra facile per la squadra più forte del mondo, ma non lo è: la competizione mondiale è lunga, sfiancante. Difficile ripetersi. Loro ci sono riusciti, in un anno anche particolare per la storia della Nuova Zelanda. Il Primo Ministro, John Key, infatti, ha dato il via all’iniziativa di sostituire la bandiera nazionale, che ancora oggi ricorda il colonialismo britannico. Dopo il bando, lanciato a maggio, si è giunti alle quattro finaliste. Il popolo, nel 2016, con un referendum, dovrà decidere se mantenere la vecchia bandiera o cambiare.
I vessilli finalisti presentano quasi tutti una foglia di felce, appuntita come la nuova haka degli All Blacks, la danza maori che eseguono prima delle partite. Una nuova versione che ha debuttato proprio in occasione di questo mondiale. Per uno strano caso, come spesso accade nella vita e nello sport, proprio mentre i neozelandesi si interrogano sulla possibilità di “cancellare” il simbolo del dominio britannico, si trovano a vincere sul suolo dell’antica madrepatria, protagonista invece della peggiore prestazione della sua storia.
Oggi, però, si vuole raccontare un’altro match degli All Blacks, una sconfitta stavolta, un rovescio sportivo per la Nuova Zelanda ma una vittoria storica per il mondo. Celebrata anche nel cinema, da Clint Eastwood con il film Invictus.
Il 24 giugno 1995 il Sudafrica batte la Nuova Zelanda 15 a 12 all’Ellis Park di Johannesburg, nella finale mondiale, dopo una partita tesissima e cattiva, risolta soltanto a sette minuti dalla fine con un drop.
Alla finale è presente il nuovo presidente sudafricano, Nelson Mandela, liberato dopo 27 anni di prigione (1990) e divenuto capo dello Stato solo l’anno prima. Madiba ha sempre amato lo sport riconoscendone anche l’importanza sociale. Nella sua autobiografia scriveva: «A Robben Island mi imponevo i consueti esercizi di podismo e pugilato. Al mattino in cella facevo 45 minuti di corsa da fermo, 200 esercizi addominali, un centinaio di piegamenti e altra ginnastica. Ho sempre pensato che lo sport sia essenziale per la salute, ma anche per la pace della mente
».
Il Sudafrica, dopo anni di isolamento dovuto all’apartheid, organizza i mondiali del 1995. Gli All Blacks partono subito fortissimi, gli Springboks sudafricani fanno più fatica, ma anche loro, contro il pronostico, arrivano in finale.
La sfida tra queste due nazionali è storia antica, sempre segnata dall’apartheid. Ancora prima che questo diventasse legge, i giocatori maori, e quindi di colore, neozelandesi non potevano andare a giocare in Sudafrica. Mentre proprio la divisione rigida causata dall’apartheid fa della squadra di rugby sudafricana un emblema della minoranza bianca. Ai neri è lasciato uno sport considerato non d’élite, il calcio.
La politica razziale è invisa al mondo, anche sportivo. La nazionale sudafricana proprio per questo motivo sarà esclusa, come capiterà in molte altre discipline e manifestazioni sportive, dalla prima Coppa del mondo di rugby, nel 1987, organizzata dalla Nuova Zelanda e da questa vinta.
Così i mondiali del 1995 sono la prima opportunità per il nuovo Sudafrica di Nelson Mandela di dimostrare al suo interno e al mondo intero che sì, il Paese è cambiato.
Il Presidente ne capisce l’importanza e andrà allo stadio alla finale, con la maglia verdeoro n. 6, quella del capitano bianco Francois Pieenar. Lo stadio è un arcobaleno di colori, con i bianchi che guardano le danze zulu della gente di colore, con la quale condividono spalti e tifo. È la prima volta che i neri sono parte importante di una partita di rugby, sul campo e sulle gradinate.
Prima della partita, un enorme Boeing 747 vola rumorosamente sullo stadio, coprendo la haka neozelandese. Sull’aereo c’è scritto “Good Luck Bokke” (Buona Fortuna Antilopine). Inizia la partita che è brutta, come si è detto, ma alla fine esplode la festa.
Il capitano Pienaar, alla premiazione sintetizzerà il senso di quell’evento con queste parole: «Non abbiamo vinto davanti a 63mila spettatori, abbiamo vinto davanti a 43 milioni di africani».
Mandela aveva fatto capire a tutti, bianchi e neri, colonizzatori e colonizzati che quella partita era importante; ha valorizzato Pienaar e gli altri bianchi, ha fatto una nazionale di tutti, invitando i neri ad integrarsi con i bianchi, senza alcuna sete di vendetta.
Ed i bianchi presenti allo stadio quel giorno canteranno insieme ai neri Shosholoza, canto di protesta della gente di colore divenuto colonna sonora di quel trionfo e quasi il secondo inno nazionale dopo la vittoria.
La parola è zulu e significa “andare avanti”, “fare spazio al prossimo”. Il ritmo ricorda il fischio del treno. Lo cantavano i lavoratori che dalla Rhodesia andavano nelle miniere del Transvaal. È diventato la canzone di tutti quel giorno. Quel giorno indimenticabile nel quale il Presidente Mandela ha restituito una nazione al mondo.