19 Gennaio 2017

Da Agnese a Scorsese

Da Agnese a Scorsese
Tempo di lettura: 4 minuti

Il 21 gennaio la Chiesa celebra la memoria di sant’Agnese. Forse uccisa durante la persecuzione di Decio, verso il 250, forse durante quella di Diocleziano di cinquant’anni più tardi, poco importa.

 

Importa invece che il martirio di questa bambina, tredici anni appena, destò un immenso stupore nella comunità cristiana dell’epoca, tanto che il suo nome fu inserito nella liturgia della Chiesa (nel canone romano).

 

La sua storia corse di bocca in bocca, toccò cuori più o meno induriti, fu narrata da tanti, tra i quali anche santi come Ambrogio e papi come Damaso (peraltro santo anche lui).

 

Proprio mentre ci accingevamo a ricordare con un povero Notes questa bambina che un amico sacerdote, don Giacomo Tantardini, ci ha reso cara (come cara era a lui), ci è capitato di leggere un articolo sul martirio.

 

Si tratta di un bello scritto che Maurizio Crippa dedica al film Silence (ha begli spunti, ai quali rimandiamo). Una pellicola, quella di Martin Scorsese, che narra una storia vera, ovvero la persecuzione subita dai cristiani giapponesi nella prima metà del XVII secolo.

 

Persecuzione cui sono fatti segno anche i protagonisti del film, due gesuiti approdati sull’isola alla ricerca di un loro confratello perduto, i quali finiscono per abiurare la propria fede.

 

La scena dell’apostasia ha suscitato controversie, anche se l’abiura rappresentata nella pellicola avviene non per aver salva la vita propria, ma l’altrui, quella cioè di altri cristiani. Motivo di polemica, appunto, che però non ci appassiona (chi vuole può appassionarsi altrove).

 

Al di là delle controversie, occorre esser grati a Scorsese per aver riproposto al grande pubblico tale vicenda storica, ponendo nel secolarizzato mondo moderno tematiche e domande che appaiono aliene, ma che aliene non sono.

 

Come i temi della persecuzione e del martirio (cristiano, è importante specificare), che sono appunto al centro della storia.

Vicende narrate come può narrarle un uomo del nostro tempo, un tempo secolarizzato che si rapporta a una Chiesa che appare anch’essa sempre più secolarizzata.

 

Così il martirio è narrato come una vicenda umana, in cui si intrecciano sofferenze indicibili, spirito di sacrificio, dedizione al Signore e altri e nobili valori.

 

Tematiche che pongono questioni e domande “alte”. Tanto che nel titolo che qualcuno ha messo in calce all’articolo di Crippa si accenna alla pellicola come a un “film per adulti”.

 

Proprio tale cenno ha fatto scattare in noi un rinnovato interesse per la vicenda di Agnese, la quale è (e resta), invece, una storia bambina. Già, perché, diversamente da quanto recita quel titolo, il martirio è cosa da bambini. Come ha mostrato in maniera esemplare la piccola Agnese.

 

D’altronde il martirio non è altro che una stupenda testimonianza, forse la più alta, del suggerimento evangelico di tornare bambini per guadagnare l’ingresso nel regno dei cieli.

 

Nulla a che vedere con lo zelo o l’eroismo umano: la forza del martirio uno non se la può dare da solo, può esser solo donata dal Signore. Quel Dio che, come suggerisce la liturgia, rivela «nei deboli la sua potenza» e dona «agli inermi la forza del martirio».

 

Così sant’Ambrogio descrive le ultime ore di Agnese: «Eccola intrepida fra le mani sanguinarie dei carnefici, eccola immobile fra gli strappi violenti di catene stridenti, eccola offrire tutto il suo corpo alla spada del furibondo soldato, ancora ignara di ciò che sia morire, ma pronta, s’è trascinata contro voglia agli altari idolatri, a tendere, tra le fiamme, le mani a Cristo, e a formare sullo stesso rogo sacrilego il segno che è il trofeo del vittorioso Signore… [la croce ndr.]»

 

«Non così sollecita va a nozze una sposa, come questa vergine, lieta della sua sorte, affrettò il passo al luogo del supplizio. Mentre tutti piangevano, lei sola non piangeva. Molti si meravigliavano che con tanta facilità donasse prodiga, come se già fosse morta, una vita che non aveva ancora gustata. Erano tutti stupiti che già rendesse testimonianza alla divinità lei che per l’età non poteva ancora disporre di sé».

 

Qualcosa di impossibile, nulla a che vedere con il coraggio o la coerenza umana. Ché anzi lo zelo non giova a nessuno, anche fosse perinde ac cadaver,  come spiega san Paolo: «Se dessi il mio corpo a essere arso, e non avessi la carità, non mi gioverebbe a niente».

 

È solo la grazia di Dio che rende possibile, e fecondo, l’impossibile. Così che anche la storia di una sofferenza indicibile, di una morte assurda, può diventare qualcosa di stupendo e commovente. Non lo scacco supremo, ma una vittoria che ha l’effetto di una corrente vitale.

 

E anche il raccontarlo diventa, come fa Ambrogio, altro e commovente. È accaduto per Agnese, ma anche per altri martiri della Chiesa.

 

Basti pensare, ad esempio, alla tradizione che riporta come san Lorenzo, con ironia tutta romana, chiedesse al carnefice che l’aveva messo sulla griglia di girarlo, perché da quella parte era cotto.

 

Non si tratta di obliterare o sublimare il dolore, ché la sofferenza resta tale (peraltro sarebbe contro natura negarla, quindi contro il creatore della stessa). Tutto sta a dove cade l’accento: se su un’impossibile determinazione umana o sulla dolce grazia del Signore.

 

Il problema è che non solo nel mondo, ma anche nella Chiesa moderna si è perso il senso della grazia.

 

Uno gnosticismo più o meno d’accatto, in cui la bella dottrina cristiana diventa materia di insegnamento, e un pelagianesimo altrettanto d’accatto, in cui l’attivismo umano non lascia tempo e spazio all’opera del Signore, hanno fatto sì che non si sappia più cosa sia la grazia di Dio. Né il suo misterioso operare nel cuore dell’uomo e nella storia.

 

Né si sa, quindi, cosa voglia dire il salmo che recita: «La tua grazia vale più della vita». Preghiera che non indica una disposizione umana, ma un abbraccio al quale abbandonarsi.

 

Un abbraccio tanto felice che può rendere quella vita capace di abbandonarsi tutta, e fino in fondo, sul cuore del suo Signore. Come un bambino in braccio al più tenero dei genitori («io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia»).

 

Nella foto, la tomba di sant’Agnese nell’omonima chiesa romana. La fotografia è di Massimo Quattrucci.

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