8 Agosto 2017

La Trasfigurazione, o della predilezione di Dio

La Trasfigurazione, o della predilezione di Dio
Tempo di lettura: 4 minuti

Il Vangelo di domenica ha proposto, riproposto alla nostra attenzione, la trasfigurazione del Signore. E come altre volte, negli ultimi anni, quella lettura mi ha lasciato un qualcosa di sospeso nel cuore, una sensazione di mancanza.

 

Mi riferisco alla nuova traduzione delle parole del Signore, che dalla nube dice agli apostoli: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

 

Si tratta di una nuova traduzione, alla quale non riesco ad abituarmi nonostante sia di alcuni anni fa. Prima recitava così: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo».

 

Non è un grande cambiamento, certo, ché il senso è lo stesso. Non sono certo un filologo o un teologo, né mi perito di dire se sia sbagliata la seconda traduzione e giusta la prima.

 

Anzi è presumibile che l’ultima sia più aderente al testo originale, altrimenti non l’avrebbero cambiata (forse). Sul punto altri sapranno dare delucidazioni, più interessanti di quante potrei darne io.

 

Ma al di là della correttezza della traduzione, che non interessa in questa sede, resta quella sensazione di mancanza.

 

Una mancanza che è fatta di affetto. Affetto per quella parola, «prediletto», che non risuona più nelle nostre chiese, o quantomeno meno spesso di prima.

 

Perché quella parola rimanda al più grande mistero del cristianesimo, in cui è inscritta tutta la dinamica cristiana, il meraviglioso meccanismo del cristianesimo.

 

E che rimanda alla predilezione del Signore. Ché appunto tutto il cristianesimo è dipanato, si dipana, attraverso questa bellissima, dolcissima parola: predilezione.

 

Così che il Signore ha prediletto un popolo, gli ebrei, e tra questi ha prediletto alcuni perché fossero suoi profeti. E poi ha prediletto una donna (fin dall’inizio della creazione, «termine fisso d’eterno consiglio», accenna in maniera stupenda Dante), perché fosse la madre di nostro Signore Gesù Cristo.

 

Il quale, a sua volta, scelse, predilesse, dodici; e tra questi ne predilesse tre, Pietro, Giacomo e Giovanni, che chiamava a sé in alcuni momenti delicati, come appunto nella Trasfigurazione.

 

E tra questi tre ne predilesse uno, Giovanni, che viene talmente definito da questa parola che a volte lo si chiama semplicemente il «prediletto». Eppure Gesù amava anche gli altri apostoli. Eccome. E però, Giovanni è, e resta, il «prediletto».

 

La predilezione, appunto. Che agli orecchi umani, a orecchi buoni ma moralisti, suona come un’ingiustizia, la più grande ingiustizia di Dio, che predilige alcuni e non altri.

 

E dire che proprio ciò che suona come somma ingiustizia al cuore e alla mente umana coincide con la più grande giustizia di Dio. Come accade all’operaio dell’ultima ora, cui è elargita la stessa paga di quanti hanno sopportato il caldo e le ore.

 

Già, questa la meccanica meravigliosa della stupenda giustizia di Dio, che predilige alcuni per comunicarsi agli altri. Alle moltitudini, come nel caso degli apostoli.

 

Un’idea, una dinamica, quella della predilezione, che si associa, né può essere altrimenti, alla dinamica della grazia. Laddove si ha a cuore la grazia di Dio, è facile capire che tale grazia si comunica per predilezione. Per sanctos: attraverso i santi, appunto; e/o attraverso circostanze particolari. Attraverso «persone o momenti di persone», accennava don Luigi Giussani in una delle sue meditazioni più belle.

 

Una dinamica che don Giacomo Tantardini ebbe a comunicare ai suoi amici non solo attraverso le parole, ma anche con la sua vita. Tutta abitata dalla sospensione all’opera del Signore, ai gesti della predilezione del Signore.

 

Così riportiamo un passo del suo volume, “Anche la fede domanda”: «La fede è grazia, come è stata un’insperata grazia per quella donna adultera quando Lui guardandola le ha detto: “Neppure io ti condanno. Va’ e non peccare più”. Era una cosa insperata. Per un’ebrea, sorpresa in adulterio, una parola così di un maestro ebreo – perché per lei Lui era semplicemente un maestro ebreo – era una cosa insperata. Una speranza così, una predilezione così era insperata. Così è iniziato il cristianesimo. Così per grazia rimane».

 

Così inizia, così rimane la fede. Una dinamica che non appartiene alla gnosi cristiana, egemone fino a qualche anno fa nella Chiesa, alla quale la grazia non serve: basta la conoscenza, l’ascesi, per il circolo degli “eletti”; e la pedagogia per la gente comune.

 

Né può trovare accoglienza nel pelagianesimo oggi imperante, che invece vede l’attivismo, il darsi da fare come punto sorgivo della salvezza umana, personale e altrui.

 

Due facce della stessa medaglia, gnosi e pelagianesimo, né più né meno. All’eresia, magari non teorizzata e solo pratica, di destra, la gnosi, si associa, come necessaria e indispensabile, l’eresia, anche qui magari pratica e non teorizzata in quanto tale, di sinistra, il pelagianesimo.

 

Due facce della stessa medaglia. Meglio: due aspetti dell’hegelismo imperante, dal momento che rappresentano la tesi e l’antitesi (destra e sinistra) dello stesso schema hegeliano che da decenni impera nella Chiesa.

 

Non si tratta di qualcosa che riguarda ristrette cerchie di intellettuali clericali, di ecclesiastici, ma è quanto si constata imbattendosi in tanti ambiti, in tante persone pur buone e impegnate. Tanti cristiani.

 

Non si tratta in questa sede di giudicare nessuno, ché il cuore lo vede solo il Signore, ma è facile rintracciare tale derive in tanti discorsi, in tanti scritti, in tanti atteggiamenti.

 

Perché stare a quanto fa il Signore, cioè restare sospesi alla sua grazia e alla dinamica imprescindibile della sua predilezione, è impossibile senza un dono di grazia.

 

Che magari può essere donato dopo una qualche caduta grave, quando non sentendosi più «mezzi santi» o «mezzi angeli» ci si guarda intorno con più umiltà e attenzione (come spiegava in maniera stupenda Giovanni Paolo I, vedi nota a margine).

 

Mi è caro il mistero della predilezione. Come è diventato caro a tanti amici di don Giacomo Tantardini, che a questo mistero è stato sospeso tutta la vita. Che tale meravigliosa ingiustizia – giustizia di Dio ha tentato di comunicare in ogni modo e in ogni circostanza. Motivo di gratitudine per quanti hanno avuto la fortuna, la grazia, di incrociare le sue vie.

 

Nota a margine. Giovanni Paolo I, dall’Udienza generale del 6 settembre: «Mi limito a raccomandare una virtù, tanto cara al Signore: ha detto: imparate da me che sono mite e umile di cuore. Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli, quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili».

 

 

 

 

 

 

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